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Uomo, popolo, terra


Recensione di “Un divorzio tardivo” di Abraham B. Yehoshua

recensione - abraham b. yehoshua - un divorzio tardivo
Abraham B. Yehoshua, Un divorzio tardivo, Einaudi

Un uomo diviso, disperso. Un padre e un marito e allo stesso tempo una persona completamente diversa, un amante, legato a una donna nuova che sta per generare un figlio, suo figlio.

Una vita, due vite, una molteplicità di vite frammentate, sparse ovunque, tracce che si indovinano con facilità ma che non portano a nulla, luoghi che rifiutano ogni ancoraggio, qualsiasi possibile appartenenza. Israele, terra amata, terra contesa, terra desiderata e straniera, luogo del ritorno e di un addio sempre rinnovato, e lontano, lontanissimo, quell’America seducente come un desiderio e salda, fraterna, affidabile ma che malgrado tutto resta rifugio, riparo di fortuna, ricovero di chi è orfano di patria. Il dramma privato di un corale naufragio familiare si fa simbolo di un’universale condizione politico-esistenziale in un romanzo di inconsueto splendore e straordinaria potenza narrativa, dove tutto, a partire dall’inanimato, da ciò che per definizione non ha vita ma che in qualche misterioso modo della vita è alimento (gli spazi noti di una casa, il disegno delle strade, il palpitare di una parola incisa sulla carta, che si fa carne al di là della carne, il lento consumarsi della brace di una sigaretta) trova una voce, sussurra, bisbiglia, racconta a mezza voce intrecciando il proprio respiro caldo con quello dei protagonisti della storia, solitudini irraggiungibili che il sangue tiene legate a fatica, ignorato, superato, scavalcato dalle paure, dalle angosce, dai sogni, dagli egoismi, dalla sovranità assoluta delle incomprensioni. Un divorzio tardivo di Abraham B. Yehoshua (in Italia pubblicato da Einaudi nella traduzione di Gaio Sciloni) è un rincorrersi di simboli, un viaggiare nell’ombra densa di cuori e anime che si riflette nella complessità di una separazione che non certifica solo e soltanto la fine di un amore ma il deflagrare di qualcosa di più grande, il dissolversi di un tessuto etico e sociale all’interno del quale ogni esperienza personale trova la propria dimensione, il proprio senso. E il grande scrittore ebreo restituisce tutta la tragedia di questo fallimento universale (che è fallimento di un popolo) mescolando i pensieri e le azioni dei diversi componenti di un nucleo familiare al cui centro si trova il più instabile tra loro, l’anziano Yehuda Kaminka, padre di tre figli tutti ormai grandi e genitori a loro volta (a eccezione dell’omosessuale Zwi), fuggito in America dove ha trovato un nuovo amore e di ritorno a casa per concludere finalmente la pratica di divorzio e lasciare così anche dinanzi a Dio, dopo averlo fatto davanti a coloro che più avrebbero dovuto contare per lui, i suoi affetti, la moglie, ricoverata in un ospedale psichiatrico in seguito a un tentativo di accoltellamento compiuto ai suoi danni.

Yehoshua disegna questo ritorno come un approdo fortunoso in un luogo quasi sconosciuto, che la memoria ricompone a fatica, dove Yehuda non smette di sentirsi ospite; egli giunge in un Israele che gli è impossibile chiamare patria appesantito dal fardello (ecco un altro simbolo trasparente) di una differenza di fuso orario che lo costringe a sonni lunghi e pesanti dentro ai quali si ritrova come imprigionato; poi, quando questo primo ostacolo sembra superato, mentre su di lui, sulla sua vita, sul rapporto con la donna che ha sposato e dalla quale ancora non si è separato, i vari altri personaggi del dramma (i figli, le loro mogli, gli amanti, perfino i nipoti di Yehuda – la voce che apre il romanzo è proprio quella di un bambino, Gadi, figlio di uno dei suoi figli) elaborano congetture, danno giudizi, comminano condanne, dispensano assoluzioni a buon mercato, egli, in conversazioni dolorose e il più delle volte inconcludenti, si sforza di chiarire per primo a se stesso il senso delle proprie scelte, la ragione del suo ritorno, il futuro che potrebbe attenderlo e che si augura di meritare. Yehuda, ansioso di mostrare al mondo la cicatrice sul suo petto, quella rosea, incancellabile lacrima di pelle e di dolore che dovrebbe chiarire ogni cosa, rendere ragione del suo allontanamento, giustificare la sua presenza nei giorni immediatamente precedenti la Pasqua, sostenere il suo diritto al divorzio dinanzi alla moglie e al consiglio rabbinico, non è che un uomo smarrito, cittadino di un Paese che gli sfugge tra le dita come sabbia, inafferrabile come il mare che può solo sfiorare con lo sguardo, selvaggio e indomabile come la natura che lo circonda e la culla, e come lui, figli ai quali egli ha trasmesso il peccato originale dell’esistenza, del venire al mondo, del giungere alla luce della sofferenza, sono gli altri personaggi della storia, marionette dominate da un’infelicità che non ha nome e che pure è dappertutto, incombente, implacabile come il duro sguardo di Dio.

Romanzo che si legge d’un fiato, attraversato da una prosa multiforme, travolgente, di rara perfezione, Un divorzio tardivo ha l’inesplicabile bellezza del miracolo; è creazione dal nulla, parola che si fa realtà nel momento stesso in cui, scritta, muta in dono per tutti coloro che la leggeranno. 

Eccovi l’inizio. Buona lettura. 

Il nonno ho pensato è arrivato per davvero fuori piove non è un sogno me lo ricordo bene mi hanno svegliato per davvero perché me l’avevano promesso di svegliarmi subito quando arrivava dall’aeroplano anche se io dormivo per questo avevo ubbidito ad andare a dormire e non aspettarlo alzato.

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