Recensione di “Max e Flora” di Isaac Bashevis Singer
“Max e Flora […] è apparso in origine a puntate con cadenza bisettimanale sul ‘Forverts’,
il quotidiano yiddish di New York tra il 7 aprile e il 18 agosto 1972, col titolo Di Gest. Ambientato a Varsavia negli anni Dieci del secolo scorso […] è […] dedicato al mondo della malavita ebraica in Polonia e in Argentina prima della Grande Guerra. [Il romanzo intende] descrivere il mondo ebraico dell’Europa Orientale senza idealizzarlo, raccontando la vita negli shtetl e nelle città in tutte le sue sfaccettature: da un lato l’estrema povertà, la criminalità, la violenza, la prostituzione, dall’altro il lavoro onesto, lo studio, la preghiera, la bontà che sfiora la santità“. Così recita la nota al testo di Elisabetta Zevi, che ha tradotto Max e Flora di Isaac Bashevis Singer (pubblicato da Adelphi), poche righe che tuttavia inquadrano perfettamente il senso di questo lavoro, una sorta di costante che riecheggia in ogni romanzo dello scrittore premio Nobel e che si potrebbe riassume nell’ambivalenza, che l’autore trasmette ai suoi personaggi, nei confronti di Dio, la cui presenza, il cui essere, allo stesso tempo non è eliminabile e non è assimilabile. Per sua natura la divinità dovrebbe non solo contenere in sé ma risolvere ogni contraddizione, e affidarsi a Dio, affidarcisi con il cuore e la mente, dovrebbe donare l’imperturbabilità, la serenità d’animo. Perché essere nelle mani di Dio è non essere nelle mani dell’uomo – “Meir era fatto così, amava esprimere pensieri profondi e filosofare. In questo assomigliava a Max. Entrambi avevano frequentato lo heder e ricordavano ancora a memoria un passo o due della Gemarah”; “Per me sei come un fratello, Max, più di un fratello, ma queste cose non mi interessano più. La sera vado a letto e dormo per un’ora. Sogno di essere un eroe, ritorno giovane. Poi mi sveglio all’improvviso col cuore che palpita, madido di sudore. Non ho problemi di denaro, eppure mi angoscio come se non avessi un groschen […]. Ma la notte mi assale la paura. Non mi crederai, ma mi metto a recitare lo Shemà Israel, o qualche altra preghiera che ricordo a memoria, malgrado tutti i miei peccati, credo ancora in Dio. Sarà anche crudele, ma esiste. Non starò diventando matto?”. “No, Meir, anche io prego quando sono nei guai. E digiuno a Kippur“. Ma il Dio di Singer, quel Dio che nel suo romanzo-capolavoro La famiglia Moskat annuncia l’annientamento degli ebrei dell’Europa orientale per mano dei nazisti, quel Dio che, al pari della vita, è crudeltà, non offre conforto; il suo sguardo si posa su ogni nefandezza, su ogni miseria; l’imperfezione del mondo, finanche la più scandalosa, trova comunque il suo respiro nel creato, è una verità con la quale si devono fare i conti.
Lungi dall’essere la sentina di ogni male – e cioè la raffigurazione dell’ebreo che il nazismo diffuse allo scopo di motivare, motivare eticamente il meccanismo ideologico e pratico dello sterminio sistematico – l’uomo raffigurato da Singer, l’ebreo criminale, l’ebreo lenone, l’ebreo sfruttatore, l’ebreo violento, l’ebreo quasi del tutto privo di scrupoli (che tuttavia non dimentica, perché non può farlo, Dio, o meglio la sua ombra) non è altro che un uomo, un’infelicità ostaggio dei propri sogni. E così la coppia protagonista del romanzo, Max e Flora, amanti, compagni, soci in affari, gestori a Buenos Aires di una florida casa di appuntamenti, fanno ritorno a Varsavia (dove dimorano le loro vite, le loro autentiche vite) soltanto per “lavoro”, perché i loro commerci in qualche modo lo esigono – dove procurarsi, del resto, ragazze giuste per il postribolo argentino, se non presso amici fidati, Meir e Leah, fuorilegge come loro, gli intoccabili del malaffare cittadino? – ma in un attimo le esistenze dell’uno e dell’altra, trascinate da forze invisibili e inarrestabili (la vendetta di Dio che finalmente giunge? Il caso, capace di intrecciare i più diabolici piani senza che nessuno possa farci nulla di nulla? Ciascuno di loro a proprio modo, perché, come recita un saggio proverbio yiddish, “dieci nemici non possono fare a un uomo il male che egli può fare a se stesso”?), finiscono in pezzi e l’amore muta in odio, la fiducia in sospetto, la riconoscenza in rancore. Flora, “salvata” da Max, mediocre attrice teatrale, prostituta per bisogno e forse anche per vocazione, analfabeta cui non è mai stato permesso di imparare a leggere, artista monca, costretta a mandare a memoria le sue parti di copione e a recitarle con affannata pedanteria, in fretta, prima che il ricordo la abbandoni, sembra risvegliarsi dal suo torpore; rivede un vecchio amante, rimette ogni cosa in discussione, scopre un altro Max. Ed egli, a sua volta, conquistato da una ragazza giovanissima, “dono” del suo sodale Meir, è come se si trovasse davanti una Flora estranea, una sconosciuta, una donna che custodiva segreti, che li aveva sempre custoditi, la cui vita non poteva appartenergli, appartenergli davvero e fino in fondo perché non la conosceva, mentre per lungo tempo, per un tempo infinitamente lungo, si era illuso del contrario.
La forza d’urto di un dialogo quasi ininterrotto, che in più di un momento assume i tratti allo stesso tempo commossi e osceni della confessione, scolpisce i caratteri dei protagonisti, che emergono alla superficie corrotta del mondo segnati dalle azioni compiute, dalle scelte fatte. Le parole non offrono né scampo né una direzione percorribile nel naufragio di un microcosmo (la via Krochmalna nel ghetto di Varsavia, dove fianco a fianco dimorano vita e morte) che è specchio opaco ma fedele di un modo dove gli ebrei, l’ebreo, sono la sola cosa che possono e devono essere, persone tra le altre. Forse irrimediabilmente perdute, forse non del tutto, non ancora. Come ciascuno di noi.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Flora dormì fino a tardi, ma Max si svegliò di buon’ora. Diceva spesso che i pensieri non lo lasciavano riposare.