Recensione di “Le strade d’oro” di Evan Hunter
Evan Hunter, Salvatore Albert Lombino (nato a New York nel 1926), Ed McBain, Dwight
Jamison, pianista di successo cieco dalla nascita. Nomi reali, nomi di finzione, nomi d’arte, nomi ricevuti al momento di venire al mondo e poi abbandonati in favore di altri, a loro volta sostituiti da altri ancora. Coperte di nomi che tuttavia appartengono a una sola persona; strati di nomi come cumuli di nuvole dietro ai quali raccontare la meraviglia del sogno americano in pari tempo conquistato e perduto. Sono i nomi, e i personaggi che li incarnano, a partire dal Dwight Jamison voce narrante della vicenda (di quella vicenda che è la sua vita, o meglio la vita del suo autore, Evan Hunter, discendente di italiani immigrati negli Stati Uniti, all’anagrafe registrato come Salvatore, nome cambiato, per aderire alla finzione di Dwight Jamison, in Ignazio Silvio di Palermo) la sostanza, la trama narrativa del bellissimo romanzo autobiografico Le strade d’oro (Neri Pozza, traduzione di Giuseppe Costigliola), agrodolce racconto di famiglia atraverso il quale il grande scrittore rievoca la storia dei propri padri, se ne appropria, la rivendica e la consegna alla benevola custodia del tempo. Dalla umiliante miseria dell’Italia contadina – “L’Italia a quei tempi – siamo sul finire degli anni Ottanta dell’Ottocento, prima della malattia della vite – era il primo paese esportatore di vino al mondo. Fu solo più tardi, quando la fillossera, un parassita del piante (‘la filossera‘, la chiamava mio nonno e invariabilmente subito dopo sputava a terra), distrusse la maggior parte delle vigne dell’Italia meridionale, che i francesi conquistarono tutto il mercato e il Bordeaux soppiantò il Chianti quale vino più diffuso in Europa e altrove. La fillossera distrusse i raccolti e l’economia: la terra era l’uva e l’uva era l’economia” – al miraggio della ricchezza facile che attendeva i più coraggiosi, i più risoluti, i più arditi al di là dell’Atlantico, nelle terre d’America sovrabbondanti di qualsiasi cosa la fantasia riuscisse a figurarsi, a ritrarre, ma i cui tesori, lungi dall’essere ovunque e a disposizione di chiunque li desiderasse, costavano molto caro, costavano una vita d’inferno, cui si rischiava di non sopravvivere – “Per mio nonno, l’America nel 1901 era un buco nella terra e una stanza in un appartamento. Il buco sarebbe diventato la metropolitana di New York. La stanza gli era stata affittata da una famiglia italiana emigrata in America cinque anni prima di lui. Mio nonno lavorava dodici ore al giorno, sei giorni la settimana, a volte anche sette. Usciva di casa alle cinque del mattino e non rientrava mai nell’edificio sulla 117 strada prima delle sette di sera” – fino al riscatto guadagnato passo dopo passo e offerto silenziosamente in dono alle nuove generazioni, alla famiglia americana che andava costituendosi e che nei sogni del primo immigrato (il nonno da Dwight Jamison, il nonno di Evan Hunter, Guseppantonio Coppola, cui il romanzo è dedicato) un giorno si sarebbe riunita a quella italiana sotto il cielo dell’unico paese che quell’uomo considerava il proprio, l’Italia, Hunter tesse un intreccio romanzesco intenso e travolgente, nel quale il dramma, la commedia, l’analisi sociologica, il crollo borsistico del 1929, la tragedia del secondo conflitto mondiale, la difficile ripresa economica, il cancro della criminalità organizzata (di origine italiana) e tanto altro ancora scadiscono, tra vette e abissi, il tempo degli uomini, un tempo fatto di nobiltà e vergogna, amore e tradimento, gioia e sofferenza.
Non a torto Evan Hunter ha considerato questo lavoro l’opera migliore di una produzione notevolissima. Splendido nella costruzione d’ambiente, incalzante nelle scene dialogate, perfetto nel disegno dei personaggi, travolgente nella descrizione dell’età del jazz, di quel mondo sospeso tra magia e delirio, creatività sublime e ossessione, che vide sorgere autentici geni della musica, attraversato dalla dolcezza e dal dolore di quei particolarissimi ricordi che sono forse la parte più vera di ciò che ciascuno di noi è, Le strade d’oro è un piccolo capolavoro letterario. Un commosso testamento che Evan Hunter offre ai lettori.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Sono cieco dalla nascita.