“Durante la prima metà dell’Ottocento gli Stati Uniti si trasformano da una piccola
federazione di ex colonie agricole e mercantili in un’immensa unione continentale, che è anche una delle più ricche e aggressive potenze industriali. A metà secolo l’età della Frontiera sta per finire, ma la nuova stirpe è spinta verso nuove frontiere da un impeto tremendo di energia e di sicurezza. Essa si considera l’unica vera nazione cristiana, il popolo eletto il cui ‘destino evidente’ è portare l’arca della libertà nel mondo barbaro: l’Europa è la corrotta civiltà alessandrina, la Grecia di questa Roma. Solo l’America è la gioventù […]: il primato dell’Americanità si fonda sull’innocenza e la purezza dello spirito americano, misteriosamente affine alla divina Natura […]. Melville procede verso la maturità nella misura in cui si ribella contro quei miti, e li macera e li dissolve nel processo fantastico inteso come processo di conoscenza, ricerca della verità attraverso l’analogia e il simbolo. Egli si era formato nel clima del primo trascendentalismo […]. Melville era di quei giovani che, nelle parole di Emerson, ‘erano nati con dei coltelli nel cervello’, furiosi appassionati del Vero, cultori intransigenti del dubbio e dello scetticismo”. Con queste parole l’introduzione di Nemi D’Agostino disegna la cornice storico-culturale all’interno della quale si muove e opera Herman Melville e nello stesso tempo offre una prima chiave di lettura del suo narrare. Un narrare che non è sbagliato assimilare al continuo, incessante respiro oceanico, silenzioso e onnisciente, che fa da sfondo alla gran parte dei suoi romanzi, che racchiude il suo riconosciuto capolavoro, Moby Dick e la cui presenza, la cui inevitabilità verrebbe da dire, paragonabile a quella di un destino, del fato della tragedia greca se si preferisce – legge, decreto, volontà divina che fa sì che tutto si compia secondo quanto stabilito, né all’uomo è possibile, qualunque cosa faccia, mutare questo corso degli avanti, per terribile che sia – esplode, si rivela con forza straordinaria in uno dei suoi romanzi più controversi, il meno riuscito forse e malgrado ciò tra i più complessi e affascinanti della sua produzione: Mardi (Garzanti, traduzione di Emilio Tadini).
Storia di viaggi e di avventure, intreccio romantico, feroce satira politica, ininterrotta riflessione filosofica che sembra non avere alcun tema preciso cui riferirsi, e ancora un raccontare libero, anarchico, folle e confuso che non offre punti di riferimento ed è specchio della continua (e infruttuosa) ricerca di protagonisti dell’opera – il cui scopo è ritrovare una bellissima fanciulla misteriosamente scomparsa, in precedenza salvata da morte certa, ma questo abbozzo di trama, che dovrebbe essere la spina dorsale di Mardi, in realtà è superfluo – il romanzo di Melville è tutto questo e molto altro ancora, anche se non è mai del tutto chiaro cosa sia davvero, cosa voglia essere. Pagina dopo pagina Mardi muta veste, muta addirittura forma, gli stili si confondono, negli interminabili dialoghi tra i personaggi gli argomenti finiscono con il perdersi, quasi si dissolvono e quel che resta è assimilabile all’orizzonte che sempre hanno di fronte questi instancabili viaggiatori: un traguardo che non si può raggiungere, un porto cui non è dato approdare. Così le quasi 600 pagine di Mardi potrebbero in realtà dilatarsi all’infinito, farsi, letteralmente, quell’oceano in cui sono immerse, nel quale sono, verrebbe da dire, prigioniere, condannate a un’eternità di elucubrazioni cui non toccherà mai il ricovero, non importa quanto fragile, di una verità. Scrive a questo proposito Giorgio Mariani: “[…] impossibile riassumere i temi politici, sociali, religiosi e filosofici toccati dalla narrazione nel corso di un viaggio che approda, sia pur allegoricamente, a ogni angolo del pianeta […]. Non a caso, un recensore ottocentesco definì Mardi ‘un Gulliver trascendentale o un Robinson Crusoe impazzito’: un testo dove al tema del viaggio si sovrappone, spesso soffocandolo, una sorta di romanzo-saggio nel quale confluiscono i riferimenti intertestuali più disparati”.
Cosa resta dunque di un’opera siffatta? E per quale ragione impegnarsi nella sua lettura? Rispondere appellandosi alla grandezza dello scrittore Melville sarebbe banale, e oltre a ciò la risposta non prenderebbe in considerazione il più ovvio dei fatti, e cioè che anche i grandi autori di tanto in tanto inciampano; no, la miglior risposta a queste domande forse la fornisce ancora Mariani, ed è con le sue parole che chiudo questa recensione: “Il disordine di Mardi […] non è dunque che lo specchio fedele di un mondo ‘fatto solo di episodi’ e non contenibile in una metanarrazione. Tutto questo non deve però impedirci di cogliere le serie di fili rossi che collegano comunque un ‘episodio’ all’altro. Tra questi assume una posizione di primo piano (e di indubbio interesse per il lettore odierno) il tema della violenza“.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Via! Le vele di maestra e la vela di gabbia sono spiegate, e l’ancora incrostata di corallo dondola a prua, e velacci e contro-velacci si gonfiano insieme sotto il vento che ci segue sul mare ululando come un cane da caccia.