“La vicenda della stesura e della stampa di questo libro è singolare quanto singolare fu la
vita della sua autrice, lunghissima, intensa, trascorsa in buona parte a Roma. Preparata nel corso di decenni, l’opera fu compiuta in un tempo relativamente breve, e vide la luce nel 1980, in una drastica riduzione, altrettanto energiche correzioni di ordine stilistico e lessicale vennero apportate senza consenso dell’autrice. Dolores considerò tale pubblicazione come l’ultima e forse la più grave delle disgrazie da cui era stata afflitta e non si rassegnò: approntò con lo scrupolo che le era abituale un nuovo dattiloscritto e dichiarò essere quella l’unica redazione del lavoro conforme alla sua volontà. il titolo, tolto da un finale che, nell’infanzia, apponeva di suo a una canzoncina, rimase il medesimo: più pertinente di questo sarebbe stato impossibile inventare. Il testo che ora si presenta riproduce l’originale autorizzato dalla Prato, a distanza di diciassette anni dall’edizione parziale […]. La rievocazione dei primi dieci anni di vita sullo scorcio del secolo scorso e l’avvio del nostro, sebbene progressiva, non segue una linea retta; si espande per cerchi concentrici, dilatandosi e contraendosi con ritmi diversi, più simili a quelli del cuore che a quelli dei cronometri […]. La Prato portava dentro di sé il suo libro da più di mezzo secolo; come avrebbe convogliato, in quali direzioni avrebbe indirizzato l’energia chiusa nel mistero della sua nascita, negli enigmi della sua infanzia? Impossibile raccogliere, ordinare quanto affiorava di autentico nella superficie in mezzo a rifiuti, a relitti, disporlo secondo schemi: se Dolores si ripiegava su se stessa, tutto le appariva simultaneo, irriducibile a qualsiasi disegno. La ricerca del seme da cui era germogliata la sua puerizia, avveniva fuori di ogni ordine spaziale e temporale. C’era un tempo senza principio, insondabile, al di là della coscienza. Le indicazioni che venivano dall’esterno erano inaccettabili, di comodo. Lo sviluppo procedeva per pulsioni, si espandeva con onde prive di direzione, di ritmo: un attimo equivaleva ad anni, una stanza, un sentiero si dilatavano in spazi immensi […]. Come leggere questo libro di fine secolo nel duplice senso dell’espressione? Esso non è nato dal proposito di fare un romanzo; non è letteratura da azienda editoriale o laboratorio universitario; non vuole riuscire gradito a chi guarda volentieri all’indietro né agli analisti del presente. Meno che mai è esercizio per descrizioni o evocazioni fini a se stesse. Forse il modo appropriato per intenderlo è quello di considerarlo come il lungo avvio di un’istruttoria contro ignoti. Nessuna commiserazione nei propri confronti, ma giudizi asciutti, magari duri, spesso ironici su persone vicine. E dichiarazioni di amore illimitato verso lo zio prete, la persona che una volta per tutte ha dato senso all’amore senza ricorrere a parole“. Questa l’introduzione di Giorgio Zampa, che presenta con ricchezza di dettaglio e il rispetto quasi sacro che si deve a tutto ciò che è prezioso che desta la più pura meraviglia e il cui splendore, la cui perfezione sono così evidenti, talmente forti da imporre, se non timore reverenziale, certo le più oneste e sincere manifestazioni di ammirazione, Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato (Quodlibet editore), capolavoro letterario dimenticato o quasi (o peggio sconosciuto al grande pubblico) contraddistinto da uno stile di scrittura unico e travolgente, da una torsione della parola, della frase, della pagina che nel privare la prosa di ogni e qualsiasi letterarietà (intesa come esercizio, abbellimento, espressione di talento), nel sottrarla dunque a qualsiasi metafisico arricchimento – nelle descrizioni d’ambiente, nelle scene dialogiche, qui peraltro ridotte ai minimi termini, poco più di una decina di pagine in un totale di oltre 600, nella costruzione dei personaggi – restituisce una purezza di linguaggio quasi assoluta, che prende corpo nella verità ultima (forse indimostrabile ma allo stesso tempo non confutabile) dell’assoluta identità tra parole e cose, nella dichiarazione, che è orgogliosa dichiarazione d’amore, della natura linguistica del reale.
Anni d’infanzia nel borgo marchigiano di Treia (il tempo lo ha indicato Zampa nell’introduzione citata, fine XIX secolo inizio del successivo; va considerato che l’edizione Quodlibet data 1997); anni d’infanzia di una bambina rifiutata dalla madre e allevata da una coppia di zii, fratello e sorella, lei lontana al punto da essere irraggiungibile, protetta dal rifugio della lettura, lei il cui amore è un corpo nudo e inerte, raggelato in gesti che non sanno nascere, e lui, prete fuori dagli schemi, inviso alle autorità, alle gerarchie clericali, geniale anima d’artista, e scienziato, alchimista, numerologo capace di donare a quella bambina adorata nel silenzio, nella condiscendenza dei sorrisi i misteri svelati del cielo e della terra, il gioco di prestigio della scienza tramutata, al modo in cui la pietra filosofale tramuta in oro il metallo vile, in ricordo indelebile. Anni d’infanzia, sofferenza, solitudine; anni di dura sincerità d’affetti; anni di vita. La trama, se di trama è lecito parlare per questo lavoro, in tutta la sua semplicità si riduce a questo; tuttavia ogni istante di questo tempo si illumina nella scrittura di questa straordinaria autrice, capace di condurre all’esistenza, alla luce i più minuti particolari semplicemente nominandoli, nominandoli ricorrendo a loro senza il sostegno di alcun orpello, con la sola intenzione di ricordarli di rievocarli, di trarli fuori dall’ombra del tempo accettando la casualità degli incontri, degli improvvisi ritorni: “Nella lunga monotona stereotipata parentesi collegiale, il nome Treja appariva sulla posta che arrivava, per tutto il resto era scomparso, sostituito dal nome del collegio. Ma dal collegio esplosi a Roma e qui di colpo, quando in un labirinto della vecchia città lessi ‘Piazza dell’olmo di Treja’, uscì fuori tutta la tenerezza fascinosa di quel paese che m’ero portata dentro senza saperlo. Ho ricercata quella piazza, non l’ho più trovata. Forse non c’è, forse non c’è mai stata. Ma io la vidi quella targa di un’epoca in cui vicoli, strade, piazze avevano il nome della loro essenza popolare; vidi il piccolo capriccioso slargo; l’albero non avrebbe potuto trovarci il suo centro, stava dove stava, l’olmo di Treja; non lo toccai. Ero fissa sul nome Treja: copriva tutta Roma.
Scorre come un fiume, a tratti tumultuoso, a tratti placido, mai fermo, mai immobile, mai statico Giù la piazza non c’è nessuno, confessione d’amore illimitato – come ben ha scritto Giorgio Zampa – e tesoro letterario di valore incommensurabile che è impossibile non amare.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Sono nata sotto un tavolino.