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La copia dal vero e l’immagine allo specchio

recensione - theodore dreiser - il titano“Mi capita spesso di pensare che le critiche allo stle di Dreiser nascondano una resistenza ai

sentimenti che ci fa provare. Se si può affermare che non sa scrivere allora non c’è bisogno di provarli, questi sentimenti. E penso anche che l’insistenza sulla pulizia formale e sulla correttezza siano segni della nevrosi e dell’irritablità dei nostri giorni”. Così nel 1951 lo scrittore premio Nobel Saul Bellow, citato nell’introduzione a Il Titano di Theodore Dreiser (Mattioli, traduzione di Livio Crescenzi), coglieva perfettamente tanto il senso della prosa di Dreiser quanto Dreiser stesso (poiché le due cose in buona misura coincidono). Nelle oltre 600 pagine del suo lavoro, secondo volume della Trilogia del desiderio, centrato sulla figura di uomo d’affari privo di scrupoli e dotato di eccezionali capacità (come anche di un’abbondante dose di buona sorte), quel che emerge, dal punto di vista stilistico – stile che inevitabilmente riverbera sulla robustezza della narazzione, sulla sua tridimensionalità, sull’esistenza d uno spessore che eviti le trappole della banalità, l’errore di un racconto il cui principio contiene già in ogni possibile dettaglio la conclusione, nel quale, in una parola, si capisce benissimo come andranno le cose – è una sorta di destino già dato. Frank Algernon Cowperwood, l’indiscusso protagonista del lavoro, carattere ispirato a un finanziere realmente esistito, Charles Tyson Yerkes (è ancora l’introduzione al romanzo a rivelarlo), sembra non poter sbagliare, e non importa nulla che all’inizio della storia il lettore lo veda uscire di prigione, dove era finito in coseguenza di operazioni finanziare decisamente spericolate messe in atto a Philadelphia, perché Cowperwood è già ben oltre questa caduta (a conti fatti, in realtà, null’altro che un modesto inciampo). Egli, da buon dominatore, da uomo abituato a guidare, a decidere, a dipendere solo ed esclusivamente da se stesso, ha già tutto quello di cui ha bisogno per costrure la fortuna cui ambisce: una spropositata ricchezza personale e il pieno riconoscimento della buona società. Lontano ormai dalla moglie e dai figli, ombre sullo sfondo del palcoscenico che ben presto spariranno del tutto dall’orizzonte narrativo dreiseriano, ha accanto a sé una ragazza giovane e bellissima, pronta a qualsasi sacrificio per lui, e ad attanderlo c’è la realtà in divenire di Chicago, nient’altro che una povera cttadina senza arte né parte nel momento in cui Cowperwood le mette gli occhi addosso ma destinata a diventare, soprattutto grazie alle sue iniziative, una metropoli di prima grandezza.

E così Cowperwood, apparentemente senza alcuna fatica, si prende Chicago, diventando il centro di colossali operazioni finanziarie che lo portano dapprima a conquistare il mercato della distribuzione di gas e in seguito quello ben più redditizio del trasporto pubblico. Come? Ecco è a questo punto, nella descrizione delle manovre di Cowperwood, che l’osservazione di Saul Bellow risulta illuminante. Cowperwood, alle prese con uomini politici, banchieri, avvocati, con il più ampio (e moralmente compromesso) sottobosco affaristico, comprende ogni suo interlocutore al primo sguardo ed è da ognuno di loro altrettanto chiaramente compreso. Con questa sostanziale differenza, però: Cowperwood individua senza fallo i punti deboli di tutti coloro con cui ha a che fare (e che nella maggior parte dei casi si riducono a pura e semplice avidità, a interesse personale) mentre tanto i suoi amici quanto i suo avversari si rendono conto di quanto lui sia determinato, capace, inarrestabile. Possibile che sia tutto così semplce? Viene da chiederselo, considerando anche il successo che Cowperwood ha con le donne (non si contano quelle che nel corso del libro egli seduce, a volte rischiando grosso dal punto di vista finanziario se si considera che tra le consenzienti vittime che miete non mancano le consorti di potentissimi banchieri il cui incondizionato appoggio gli è, se non essenziale, d’enorme utilità) non conosce crisi. E la risposta la fornisce proprio Bellow. Possibile, sì, se quel che si decide di ritrarre è la natura umana consderata nella sua essenzialtà, spogliata dunque di ogni orpello civile. La Chicago in qualche modo primitva su cui Cowperwood si getta con appetito animale è un paesaggio ferino, primordiale, dove si svolge una cruda lotta per la sopravvivenza. Qui non c’è posto per null’altro che non sia la sopraffazione ed è questa logica, brutale ma cristallina, a muovere uomini e donne.

Tutto allora risulta fin troppo chiaro a chiunque voglia vedere, a chiunque non abbia intenzione di perdere tempo con il rispetto delle regole sociali, utili forse per trascorrere una piacevole serata a teatro ma non per realizzare i progetti che si hanno in mente, soprattutto se si hanno in mente disegni grandiosi. Che sentimenti si provano di fronte all’irresistibile ascesa di Cowperwood? Che reazioni suscitano le manovre al limite della legalità (più spesso oltre la legalità) dei suoi uomini? E come ci si sente osservando predatori e prede che, trovato un abbondante pasto in grado di saziare entrambi, abbandonano senza pensarci un momento ogn rivalità per trasformarsi in inseparabili compagni d’avventura? Bisogna ammettere che tutte queste cose ci creano disagio, e non tanto perché le vediamo compiersi ma per la facilità con cui accadono, una facilità che non è invenzione narrativa ma copia dal vero. Allora è la verità di Theodore Dreiser a colpire, a fare male; è il suo scrivere semplice, piatto, che lungi dall’essere assenza di talento è invece lucida cronaca, a costringerci in qualche modo di fronte a uno specchio. Un mondo, non conta quanto piccolo (se tutto quanto raccontato ne Il Titano fosse nato e morto nella Chicago della seconda metà del XIX secolo sarebbe forse meno grave?), in cui tutto è possibile è un mondo abitato da persone disposte a tutto. Un mondo, per dirla con Bob Dylan (altro premio Nobel) in cui forse “non è ancora buio, però il buio sta senz’altro arrivando”.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Quando Frank Algernon Cowperwood uscì dal Penitenziario Distrettuale di Philadelphia si rese conto che la vita di un tempo, trascorsa in quella città sin dalla fanciulezza, era per sempre finita.

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