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Gli specchi in frantumi

recensione - dove si nasconde il lupo - ayelet gundar goshenLa vita d’incubo di una ricca famiglia ebrea negli Stati Uniti. La vita perfetta di una ricca

famiglia ebrea negli Stati Uniti. In America, nella Silicon Valley. Si snoda tra questi due estremi, quello del sogno e quello dell’incubo, Dove si nasconde il lupo, romanzo di Aylet Gundar-Goshen (Neri Pozza, traduzione di Raffaella Scardi), che al principio sembra assumere i toni del giallo – e in questa scelta, ma soltanto in questa, ricorda il folgorante inizio del bellissimo e purtroppo poco conosciuto Strada sdrucciolevole – per poi virare in più direzioni differenti (storia familiare, riflessione politica, che si apre nei momenti in cui l’autrice parla della sua patria, Israele, per raggiungere l’acme nelle pagine in cui Lilach, forse la principale figura della storia, ricorda una tragedia personale accaduta proprio nella sua terra, quel paese amato e folle dove nulla si può fare senza preventivamente essersi informati, per quanto possibile, sulle intenzione dei nemici, che sono ovunque, che sono, o possono essere, chiunque, racconto di un’amicizia virile, riflessione sull’adolescenza e parallela meditazione sulla vecchiaia e sulla morte, e tanto altro ancora) senza mai imboccarne con decisione nessuna. La scrittrice israeliana racconta con fluida semplictà, illumina le quotidiane banalità di vite qualunque (una moglie innamorata e felice, una madre il cui primo e ultimo pensiero è il proprio figlio sedicenne, figlio unico destinato a rimanere tale, timido, studioso, introverso, un marito con un ottimo lavoro, un impiego manageriale, bello, sicuro di sé, vincente; può esistere qualcosa di più prossimo a un luogo comune? Ma forse l’America, per chi ce l’ha fatta, è esattamente questo: belle case, strade pulite, silenzione e sicure, ristoranti di lusso, automobili costose, personale di servizio. Forse.) e poi d’improvviso rompe tutti gli specchi di casa e lascia che della realtà, che fino a un momento prima non faceva nessuna paura, non rimangano che frammenti, frammenti così piccoli da non consentire nessuna ricostruzione. La realtà così come la si conosceva è perduta. Perduta per sempre.

Il primo specchio si rompe nell’attimo in cui un uomo di colore irrompe armato di machete in una sinagoga. Ci sono ferite, c’è una vittima, una ragazza giovane, troppo giovane. Tutti, non solo la comunità israeliana del luogo, sono sconvolti, colmi d’orrore e di pena, ma per alcuni la disperazione, lo sgomento, la rabbia, non possono bastare. Gli ebrei hanno imparato da tempo che è indispensabile difendersi, lo hanno imparato nel modo più terribile, lo hanno imparato dopo aver subito uno sterminio, un genocidio; così ecco che qualcuno, forse un ex agente del Mossad, di certo una persona che ha servito nell’esercito israeliano, organizza un corso di autodifesa; i giovani ebrei sono invitati a partecipare, è importantissimo che, se aggrediti, imparino a rispondere; di più, che agiscano per primi dovesse essere necessario. E tra i giovani ebrei ecco comparire anche Adam, il figlio sedicenne della coppia felice formata da Lilach e Michael, un ragazzo che alla violenza fino a quel momento non aveva mai pensato, che amava gli scacchi, la chimica, che la sola volta in cui aveva avuto uno scontro (uscendone malconcio) si era risolto a battersi per una ragione più che nobile, salvare un cane dalle torture che stava subendo per opera di un gruppo di disgraziati. Poi è la volta del secondo specchio, che va in pezzi con un rumore fragoroso, la cui eco non si spegnerà più: a una festa un ragazzo, un ragazzo di colore, muore. Droga, si scoprirà. Ma come è successo? Come può essere successo? Come è arrivata la droga fino a lui? L’ha presa da solo? Qualcuno gliel’ha data senza che lo sapesse? Si è trattato d uno scherzo finito di un tragedia? Si tratta d omicidio? E se è un omicidio, chi può essere l’assassino?

L’assassino, l’omicida, potrebbe essere proprio Adam, questo il sospetto che apre il romanzo e cerca di tenere unito, in un filo rosso di possibile ricostruzione di ciò che è davvero successo, di ricerca della verità (sempre più affannosa, sempre più angosciata), il progressivo snodarsi della vicenda; nel proseguire della storia, tuttavia, a prevalere è la confusione, un accumulo quasi compulsivo di informazioni, dettagli, colpi di scena, utile forse a tenere accesa l’attenzione del lettore ma incongruo nell’economia complessiva del romanzo, il cui intreccio, alla fine, si apre su un palcoscenico desolatamente vuoto. Malgrado i falsi indizi e la pluralità di piste disseminate nel corso delle quasi 300 pagine del libro non è difficile indovinare le responsabilità dei vari attori di volta in volta presentati. E se, per quel che riguarda la parte mystery di Dove si nasconde il lupo (forse il lupo non si nasconde, forse l’uomo è lupo all’uomo, secondo la celebre massima di Hobbes, e non c’è alcun mistero da svelare, solo una gran mestizia con cui fare i conti oggi, domani, sempre, dal momento in cui ci si rende conto che lo stato di natura è la sola civiltà di cui siamo capaci) questo si può considerare un difetto marginale, una debolezza scusabile (non sono infrequenti ottimi gialli la cui qualità non è compromessa dalle felici intuizioni dei lettori), discorso diverso va fatto per i moventi che stanno alla base di tutto, questi sì tanto impalbabili da rasentare l’imbarazzo e soprattutto da pregiudicare quasi irrimediabilmente l’intero lavoro. Che resta una lettura piacevole ma nulla più. Ed è un peccato.

Eccovi l’incipit.

Vedo ancora quelle minuscole dita di neonato e cerco di capire se siano diventate le dita di un assassino..

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