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T.P. il benefico contagio della follia

Recensione di “L’arcobaleno della gravità” di Thomas Pynchon

recensione Thomas Pynchon, L'arcobaleno della gravità, BUR
Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità, BUR
 

Sull’uomo Thomas Pynchon non c’è molto da dire. Non concede interviste, evita qualsiasi genere di esposizione mediatica, non frequenta i colleghi scrittori (a eccezione, pare, di Don DeLillo). Insomma, è un oggetto misterioso, e come spesso accade in questi casi, alla scarsità di notizie fa da contraltare un eccesso di congetture e speculazioni. Sul suo conto ne sono sorte di ogni genere; tra le più divertenti, quella secondo la quale Pynchon non esiste, è il nome d’arte dietro il quale di cela J.D. Salinger. Un sincero plauso all’originalità, peccato però che la fantasiosa ipotesi sia caduta (e scaduta) nel 2010, alla morte del celebrato autore de Il giovane Holden.


Anni fa, parlando con una persona che di mestiere scrive, mi azzardai a chiedere un parere sulla reale identità di Thomas Pynchon citando proprio la suggestiva “variante Salinger”. Volevo far sfoggio di cultura, dimostrare che conoscevo Pynchon. Il mio interlocutore, evidentemente molto più preparato di me sull’argomento, fece spallucce, sorrise e replicò: “Beh, è così importante sapere chi sia? Io credo di no”. “In effetti no”, convenni. Perché chiunque sia Pynchon, quel che conta davvero è ciò che ha scritto.

E Pynchon ha scritto degli assoluti capolavori; romanzi e racconti che esplorano tutti e generi e li superano, dando vita a qualcosa di assolutamente unico nel panorama letterario mondialePynchon fa parte di quella ristrettissima élite di autori per i quali la trama di ciò che si racconta, l’ossatura della narrazione, non è che un accessorio, materia da plasmare a piacimento.

La cultura enciclopedica, la curiosità vorace, il radicato senso di giustizia sociale, la risoluta volontà di far conoscere (o ricordare, a seconda dei casi) al lettore episodi dimenticati di storia – parentesi tragiche il più delle volte – il grottesco iperrealismo delle descrizioni, in una parola, tutto quel che rende Pynchon uno dei più grandi scrittori della storia della letteratura, fanno da monumentale architettura a pagine e pagine di ipnotica bellezza, di compiuta perfezione.

Se la mole del libro (967 pagine) non vi spaventa, vi suggerisco L’arcobaleno della gravità, tra i più noti romanzi di Pynchon. La trama? Beh, come dicevo prima, è superflua, o meglio, ce ne sono molte. Tuttavia, per quanto volutamente tenuto in chiaroscuro, uno scenario di riferimento c’è, ve lo riassumo nei suoi punti essenziali: Londra. Il secondo conflitto mondiale è quasi alla fine e sulla città piovono i missili V2 dei nazisti. Un ufficiale americano, tale Slothorp, che in giovane età ha subito un particolare processo di condizionamento mentale, è in grado di “sentire” dove i missili nemici colpiranno. Quando l’uomo ha una reazione di tipo squisitamente fisico (non credo riusciate a immaginare quale sia), ecco, di lì a poco, verificarsi l’impatto.

Ora lascio la ribalta a Pynchon.

Salito di sopra, nella toilette per uomini del Roseland Ballroom, Slothorp si sente male e si inginocchia davanti alla tazza del gabinetto, vomita tutto, la birra, gli hamburger, le patatine fritte, l’insalata condita alla francese, una mezza bottiglia di Moxie, i cioccolatini alla menta del dopopranzo, una tavoletta di Clark, mezzo chilo di noccioline americane, la ciliegina presa dal bicchiere di una ragazza di Radcliffe che si stava bevendo un old-fashioned. Mentre è lì, con le lacrime agli occhi, all’improvviso sente un tonfo. Plop. Aaarrgghh! L’armonica cade in quel cesso rivoltante. Slothorp vede subito le bollicine d’aria salire lungo i fianchi scintillanti dell’armonica, lungo le sue superfici di legno marrone in parte ancora laccate, in parte consumate dalle labbra, le minute perle argentate si liberano dall’armonica mentre questa continua la sua discesa verso il collo uterino di porcellana bianca, prima di sprofondare nella notte… Un giorno, forse, l’esercito americano gli fornirà delle camicie con il taschino munito di bottoni […].

Le ance dei bassi vibrano per un attimo dopo aver toccato la porcellana […] poi il loro suono viene soffocato dall’acqua screziata dalle ultime volute del suo vomito colorato di bile. Non c’è modo di riprendere l’armonica. O la lascia andare per sempre, e con essa anche i suoni argentini che potrà creare, oppure se vuole prenderla deve decidersi a seguirla. Seguirla?

 
P.S. Nel suo gustoso American Gods (una maschia rimpatriata terrestre dei vecchi dei) Neil Gaiman omaggia Pynchon mettendo in mano a uno dei suoi personaggi proprio L’arcobaleno della gravità. Una ragione in più per leggere un libro davvero ben scritto.
E così, eccovi due consigli in un unico post. Non male, no?

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