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Lacerare il silenzio


Recensione di “Melancholia I-II” di Jon Fosse

recensione - jon fosse, melancholia I-II
Jon Fosse, Melancholia I-II, La nave di Teseo

“Il male della bile nera, atrabile in eccesso che provoca la discrasia degli umori alterando

l’equilibrio psichico del paziente, questa la malattia dell’anima diagnosticata al pittore romantico norvegere Lars Hertervig nel 1856, al suo ricovero nel manicomio di Gaustad, nei pressi di Christiania (l’attuale Oslo), e questo il fulcro di Melancholia. Eppure non è sul disturbo psicotico che Jon Fosse vuole scrivere, bensì dall’interno di esso […]. L’autore costruisce la narrazione su un reticolato di pochi fatti storici ridotti all’osso e sconfinanti nella leggenda, perché, come egli afferma, è l’arte a legittimare la letteratura, non la storia. Un fatto è che fuggì da Gaustad, tra racconto e mito che fosse stato cacciato dalla famiglia presso la quale affittava una stanza a Düsseldorf perché si era innamorato della figlia, creazione letteraria con qualche eco autobiografica il personaggio dello scrittore Vidme e interamente fittizio quello della sorella Oline. Fosse è affascinato fin dall’infanzia dalla figura di Hertervig, con cui vanta una lontana parentela e afferma di condividere una certa affinità del sentire, e nei suoi oli su tela riconosce una capacità di vedere ‘quasi spaventosa’ al di là di ogni logica, così borderline e compressa entro i limiti angusti della ragione da non permettergli di partecipare al mondo che appartiene agli altri. Un artista che scrive dall’interno dello spazio mentale di un altro artista per dare voce al vissuto psichico di un’anima in bilico, in preda a una tensione costante tra paradiso e inferno che nel farsi lingua tende al minimalismo estremo e alla non-verbalizzazione attraverso, paradossalmente, una profusione di parole. L’autore si pone in ascolto della luce nei movimenti di nuvole dei paesaggi di Hertervig […] con l’intenzione di tradurre in parole i discorsi muti delle immagini, scrivere la luce a partire dall’oscuro dolore del pittore, inteso quasi come il luogo fisico in cui dipingeva”. La nota di Cristina Falcinella, traduttrice di Melancholia I-II del premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse (in Italia edito da La nave di Teseo), offre una mappa in grado di orientare il lettore, gettato fin dalla prima pagina nel labirinto inestricabile di un fatto già avvenuto (il pittore Lars Hertervig, un pittore dotato di talento, studente all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, allievo di Hans Gude, sta per essere mandato via dalla casa dove ha affittato una stanza, colpevole forse di avere stretto una relazione sentimentale con Helene, la figlia dei padroni di casa, di soli quindici anni di età; e se invece i due fossero fidanzati, come sostiene Hertervig?), di una vita già vissuta, non per intero certo, ma abbastanza perché quel che davvero conta in essa, l’arte, si consumi nel racconto, o meglio nella febbre, nel delirio del protagonista, incapace di decidersi sulla propria abilità, continuamente sospeso tra l’orgogliosa affermazione del suo sé artistico e la più radicale negazione di ogni possibilità di espressione della propria sensibilità attraverso la pittura (e allora che fare in questo giorno che sembra la fine di ogni giorno? Uscire dalla propria camera per andare all’Accademia? Attendere l’arrivo del maestro Gude che dovrà giudicare i lavori di Hertervig e dei suoi compagni, tutti quanti o quasi incapaci di dipingere? Armarsi del coraggio necessario per accettare una possibile delusione, un parere negativo di Gude, una bocciatura oppure rimanere in quella stanza, in quella casa che pure si sarà costretti a lasciare, evocare Helene, aggrapparsi al proprio amore ricambiato, chissà se veramente ricambiato, e lasciare che il tempo scorra? Resistere al tempo immergendocisi completamente? Farsi molecola d’acqua nello scorrere di un fiume?), di un destino che appare già scritto (che fare quando il mondo degli altri ci è inaccessibile? Come difendersi da una ragione del mondo che è follia per l’uomo rimasto solo con i propri demoni, i propri incubi, la propria grandezza che lui per primo fatica a riconoscere? Che fare quando la ragione e le ragioni di quell’uomo non sono che pazzia agli occhi della ragione del mondo? Che fare quando tutti i pittori che non sanno dipingere sono i sani ed Hertervig è il malato?).

Così il romanzo sembra soffocare se stesso nell’abisso di delirio in cui Hertervig, fin dalla prima parola, è già precipitato. Egli spalanca lo sguardo verso ogni minuto dettaglio della sua esistenza qui e ora; il letto in cui è sdraiato, la finestra, l’armadio, Helene e i suoi gesti, che forse ricorda o forse evoca, che potrebbero non essere altro che fantasmi della sua malattia, e ogni nuovo momento – l’arrivo dello zio di Helene, lo scontro dialettico, l’obbligo di lasciare la casa quel giorno stesso, le valigie da preparare per andarsene, la passeggiata fino al locale in cui tutti i pittori sono soliti ritrovarsi e che Hertervig visita per la prima volta… – giunge con esasperata lentezza, a sottolineare un tempo, il tempo della malattia mentale di Hertervig, il solo possibile, il solo esistente per lui, nel quale ciò che ha valore, ciò che ha senso, è soltanto quel che si ricorda, o ciò cui la follia dà forma. La realtà non è che rumore, corpo estraneo, materia pesante, ruggine che corrode il metallo, sabbia in un ingranaggio; vero, autentico, è il sogno della malattia, la realtà del mondo è la luce bianca di un gelido mattino che costringe la mente al risveglio, gli occhi a schiudersi. E il risveglio è l’ordine perfetto e disumano di un manicomio, dove Lars viene rinchiuso senza nessuna possibilità di dipingere. Le sue mani, prive di pennelli e colori, sono chiamate a ben più ordinario lavoro: devono spalare la neve che senza sosta si accumula lungo i viali di ingresso all’edificio. Ma Lars è un pittore, un pittore che sa dipingere, e se non può dipingere allora non c’è altro, null’altro che possa fare….

Fosse segue Hertervig facendosi personaggio, diventando quel pittore: la sua scrittura non lo avvicina descrivendolo, non cerca di indovinarlo disegnandolo attraverso la sua malattia ma si consegna al suo male e a esso offre la potenziale infinità della parola, che si fa ripetizione ossessiva, circolarità vertiginosa: è Hertervig, Hertervig il pittore ed Hertervig il pazzo a parlare in Melancholia I-II; non esiste altra prospettiva finché la narrazione è condotta dal punto di vista (sovrumano? impossibile? Borges ci ha insegnato che è proprio dei libri impossibili e infiniti che si può scrivere…) della sofferenza psichica di Hertervig; il sipario si apre solamente quanto l’artista esce di scena, quando di lui, dopo la sua fuga dal manicomio, si perdono le tracce. Allora al suo posto, e questa volta sì a parlare di lui, a presentarcelo in frammenti di specchio, sono altri, il contemporaneo scrittore Vidme, anch’egli tormentato, insicuro, perduto anche se non ancora completamente, e l’anziana sorella Oline, narrata, in pagine di commovente, straziante splendore, nel suo soccombere al tempo, quel tempo che Hertervig per tutta la vita rifiutò di riconoscere come proprio, cui si ribellò finendo per precipitare nella pazzia, e la cui rivincita, ora, ha la spietatezza del dio dell’Antico Testamento.

Romanzo splendido e terribile, che mette a dura prova il lettore ma che lascia senza fiato per potenza e originalità espressiva, Melancholia I-II sa ricondurre la parola alla pura onnipotenza di quello che Rousseau chiamava stato di natura: e nell’innocenza dello stato di natura la parola libera lacerando il silenzio.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Düsseldorf, pomeriggio, tardo autunno 1853: sono sdraiato sul letto, indosso il mio abito di velluto color malva, il mio bellissimo abito, e non voglio incontrare Hans Gude.

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