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Dove perfino i carnefici finiscono per essere vittime

Recensione di “La morte non dimentica” di Dennis Lehane

Dennis Lehane, La morte non dimentica, Piemme

Un romanzo giallo che ha lo spessore di una tragedia greca; il destino di un uomo che, simile a quello d’Edipo, porta in sé un’inevitabile sciagura; una colpa terribile (la reiterata violenza sessuale su un ragazzino) che distrugge una vita e, come la peggiore delle maledizioni, ne sconvolge irrimediabilmente altre fino a farsi eredità d’incubo.

La morte non dimentica di Dennis Lehane è un libro di lacerante bellezza, complesso come un mosaico, imprevedibile come un labirinto; del thriller puro ha le atmosfere e l’immancabile crescendo di tensione, del dramma ha le coloriture della prosa e la minuziosa descrizione d’ambiente, ma a colpire davvero il lettore sono la precisione e l’acutezza della riflessione psicologica, a lasciare senza fiato è quella capacità unica di raccontare il dolore, di dar limpida voce all’urlo inarticolato del trauma, di rappresentare con verità, con autenticità, l’esplodere di una tragedia.

Il mondo di Lehane è quello degradato ma ostinatamente dignitoso della periferia cittadina (tutti i suoi lavori sono ambientati a Boston, città nella quale lo scrittore di origine irlandese vive); i suoi personaggi lottano, sopravvivono, inseguono un riscatto che per molti di loro ha la consistenza illusoria di un miraggio. Privi di illusioni, essi non mancano tuttavia d’innocenza, perché anche chi domani sarà uomo un tempo è stato bambino, e i bambini credono a ciò che vedono. Quel che vedono Jimmy, Dave e Sean in un giorno del 1975 all’apparenza identico a qualsiasi altro, quel che d’improvviso appare dinanzi ai loro occhi mentre, nel bel mezzo di una strada, stanno litigando, è una macchina “lunga e squadrata come quelle degli investigatori di polizia” con due uomini a bordo.

Dall’auto ne scende uno, quello che stava al volante. “Aveva l’aspetto tipico del poliziotto”, scrive Lehane amplificando, sottolineando quella sottile, insistente, maligna linea di continuità tra apparenza e realtà che scintilla nello sguardo spaventato dei bambini, “capelli biondi e corti, viso paonazzo, camicia bianca, cravatta sintetica nera a strisce gialle, la pancia pesante che ricadeva sulla fibbia della cintura come un sacco di patate. L’altro aveva un’aria poco sana: magro e sciupato, rimase seduto al suo posto, con una mano tra i capelli unti e scuri e lo sguardo fisso nello specchietto laterale per seguire i movimenti dei tre ragazzi”.

I finti poliziotti (in realtà una coppia di pedofili) portano via Dave; lo terranno sequestrato quattro giorni, rubandogli per sempre i suoi anni, il suo futuro. Questo l’antefatto del romanzo, che è anche il filo conduttore di quel che accade venticinque anni dopo, quando i tre ragazzi, ora adulti, ciascuno con una propria vita, vengono investiti da un nuovo, terribile evento: l’uccisione di Katie, la figlia di Jimmy. La responsabilità del caso tocca a Sean, diventato poliziotto, e la sua ricerca della verità è una lenta, inesorabile discesa nell’abisso; Lehane la narra magistralmente, mescolando alla perfezione gli elementi concreti dell’investigazione (il faticoso procedere di scoperta in scoperta, i pericoli rappresentati dalle false piste, il formarsi dei sospetti, il prendere corpo delle ipotesi) e quelli tormentosi della memoria, dei ricordi seppelliti a viva forza in un oscuro recesso della mente (il ritorno a un tempo perduto per sempre, la rievocazione malinconica e impotente di sodalizi d’infanzia, scoloriti chissà come nell’indifferenza oppure divenuti inimicizie palesi), e dà vita a una storia di impressionante cupezza, dove tutti, perfino i carnefici, finiscono per essere vittime, e dove anche la verità si rivela nient’altro che il beffardo rovescio della medaglia della finzione.

Dave, il ragazzino violentato che ora è marito e padre, si ritrova suo malgrado al centro delle indagini: il suo alibi è lacunoso e la sera dell’omicidio è successo qualcosa, qualcosa di brutto, che lui si ostina a non rivelare a nessuno, neppure alla moglie. Intanto Jimmy non sa darsi pace, vuole a tutti costi che sia fatta giustizia; di più, vuole vendetta, la pretende…

Dell’epilogo naturalmente taccio, mi limito solo a dire che non manca la sorpresa (peraltro ottimamente congegnata).

La morte non dimentica, da cui è stato tratto un bellissimo film, Mystic River, diretto da Clint Eastwood, è un romanzo impossibile da dimenticare; il suo palpitante respiro noir si fonde nell’inquieto procedere di un storia che ha la dimensione quasi superumana della letterarietà tragica e la sconvolgente realtà del fatto di cronaca.

Eccovi l’incipit (la traduzione per Piemme è di Francesca Stignani). Buona lettura.

Quando Sean Devine e Jimmy Marcus erano bambini, i loro padri lavoravano nella stessa fabbrica di dolci Coleman e rincasando portavano con sé l’odore del cioccolato caldo. Era un marchio indelebile sugli abiti, sulle lenzuola, sugli schienali dei sedili delle loro auto. La cucina di Sean sapeva di barretta al caramello, il bagno di cioccolato alle nocciole. A undici anni, Sean e Jimmy avevano sviluppato un tale odio nei confronti dei dolci, che avrebbero preso il caffè senza zucchero e rifiutato il dessert per tutto il resto della loro vita. Al sabato, il padre di Jimmy passava dai Devine per farsi una birra con il padre di Sean. Portava con sé anche il figlio, e mentre le birre diventavano sei, seguite da due o tre bicchierini di whisky, Jimmy e Sean giocavano nel cortile sul retro, qualche volta insieme a Dave Boyle. Dave era un ragazzino dai polsi sottili e dagli occhi spenti, che raccontava barzellette imparate dai suoi zii. Attraverso la finestra della cucina i ragazzi udivano il sibilo delle lattine di birra appena stappate, improvvisi scoppi di risa e lo scatto secco degli accendini quando il signor Devine e il signor Marcus si mettevano a fumare.

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