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Nella più gloriosa e prospera nazione del mondo

Recensione de “Il Signore degli Orfani” di Adam Johnson

Adam Johnson, Il Signore degli Orfani, Marsilio
Adam Johnson, Il Signore degli Orfani, Marsilio

Prima il tono trionfalistico e spudorato della propaganda, poi le descrizioni feroci della realtà: la miseria assoluta e implacabile, la chirurgica violenza dello Stato, il meccanismo perfetto delle prigioni, che in ogni angolo del Paese ingoiano cittadini, ne consumano ogni energia costringendoli a massacranti turni di lavoro nelle miniere o nei campi e infine, privati perfino del sangue (risorsa preziosa, recuperata da zelanti squadre di addetti), li riconsegnano alla terra.

E ancora le vite dei singoli, lo sbocciare meraviglioso e raro di esistenze irripetibili che il popolo, organismo collettivo e acefalo, osserva diffidente e distante, e il Partito, vigile, si preoccupa di identificare. Ed estirpare. Siamo nella più gloriosa, prospera e libera nazione del mondo, la Corea del Nord, guidata con saggezza, amore e paterno calore dal Caro Leader Kim Jong Il.

A raccontarla è lo scrittore americano Adam Johnson nel suo splendido romanzo Il Signore degli Orfani, finalista al National Book Critics Circle Award e vincitore per premio Pulitzer la narrativa 2013. Johnson, che ha personalmente visitato il Paese e incontrato Kim Jong Il, intreccia verità e finzione e costruisce una storia indimenticabile, che ha il respiro epico dell’avventura, la commossa intensità di un intreccio amoroso e la cruda, disarmante sincerità del reportage.

Sorretto da una prosa di limpida bellezza, da un linguaggio ricco, potente, evocativo, attento a ogni minima sfumatura di significato, il romanzo si divide di due parti; nella prima il protagonista è Pak Jun Do, orfano, come molti, troppi bambini coreani, perché figlio di una bellissima cantante, condannata proprio dalla sua avvenenza e portata nella capitale, Pyongyang, per deliziare qualche alto esponente del Partito, o forse il Caro Leader in persona. Nell’orfanotrofio Lunghi Domani, gestito dal padre di Pak Jun Do, per il quale il figlio non è che dolorosa memoria della scomparsa della moglie, il bambino cresce, più forte degli stenti, del gelo dell’inverno, dei “lavori volontari” cui i piccoli venivano assegnati: “D’estate riempivano i sacchetti di sabbia e d’inverno usavano sbarre metalliche per rompere le lastre di ghiaccio sulle banchine del porto. Negli impianti industriali, in cambio di una scodella di chap chai spalavano le spirali di metallo oleoso che uscivano a spruzzi dai torni. Negli scali merci ferroviari, però, venivano trattati meglio: yakejang piccante. Una volta, mentre con il badile svuotavano dei vagoni, trovarono una polvere che assomigliava a sale. E cominciarono a sudare, diventando tutti rossi: mani, facce e denti. Il treno aveva trasportato sostanze chimiche per la fabbrica di vernici. Rimasero rossi per settimane”.

Ragazzo, Pak Jun Do si arruola; impara l’arte del taekwondo e finisce a guidare squadre di incursori specializzate nel muoversi e nel combattere in totale assenza di luce nei tunnel scavati lungo la zona demilitarizzata che divide Corea del Nord e Corea del Sud. È qui che lo preleva un uomo dell’apparato; è stato scelto, gli viene spiegato, per missioni più importanti, più delicate; il rapimento di cittadini giapponesi, esercitazioni preparatorie al sequestro di una cantante lirica, “scelta” da un potente ministro di Pyonyang, che se ne è invaghito dopo averla vista in televisione.

Jun Do esegue, efficiente, tutti i compiti che gli vengono assegnati, ma ogni esperienza lo segna, nel corpo e nell’anima, e le sue cicatrici, poco alla volta, scavano una netta linea di demarcazione tra la sua coscienza, la sua idea di bene e male, di giusto e ingiusto, e l’obbedienza supina all’ideologia del Partito, alla “verità” contrabbandata dai proclami, dai discorsi abbaiati senza sosta dagli altoparlanti disseminati ovunque, per le strade, nelle fabbriche, in ogni casa. Finché Pak Jun Do non viene di nuovo promosso, e parte per una missione diplomatica in Texas. Sfortunatamente, il viaggio si rivela un fallimento, e il giovane viene punito: per lui si aprono le porte di una prigione. “Da questo punto in avanti”, scrive Johnson, “null’altro si sa a proposito del cittadino che risponde al nome di Pak Jun Do”.

La seconda parte del romanzo offre un radicale cambio di prospettiva. L’azione si sposta nella capitale e al lettore viene narrata un’altra storia, quella del Comandante Ga, Ministro delle Prigioni e delle Miniere, eroe di guerra, fraterno amico del Caro Leader ma anche suo acerrimo avversario; a dividerli, l’amore per una donna, Sun Moon, la più celebre attrice della Corea del Nord. Ga in realtà non ama Sun Moon, l’ha semplicemente strappata al Caro Leader, chiedendola come ricompensa per una delle sue vittoriose campagne belliche.

Ma, ed è questa la cosa più importante, il Comandante Ga descritto in queste pagine non è il vero Comandante Ga, è un impostore, è un detenuto fuggito chissà come da una prigione, un nemico dello Stato che è riuscito a compiere l’impensabile; ha ucciso il vero Comandante Ga e ne ha preso il posto. È diventato il marito di Sun Moon, il nuovo padre dei suoi due figli e il nuovo amico del Caro Leader. Questo Comandante Ga, che in realtà è Pak Jun Do, ha potuto cambiare le cose perché ha compreso quel che milioni di cittadini si sono sempre limitati a subire; ha capito di vivere in un Paese “in cui la gente era addestrata ad accettare qualunque realtà venisse presentata”, un Paese in cui “esisteva soltanto una punizione, la punizione suprema, per chi metteva in dubbio la realtà”, un girone infernale nel quale “un cittadino poteva correre un grave rischio per il solo fatto di aver notato che la realtà era cambiata”.

Nei panni del Comandante Ga, colui che un tempo è stato l’orfano Pak Jun Do mette a punto un piano arditissimo, che l’autore narra da un molteplice punto di vista, quello degli addetti agli interrogatori della Divisione 42, la sezione deputata alla “rieducazione” dei cittadini, quello dello stesso Comandante Ga, che nel medesimo tempo ricorda, rivive e confessa ciò che ha fatto, e quello di Sun Moon e dei suoi bambini, la nuova famiglia di Ga, che di fronte a quest’uomo sconosciuto impara a rinascere, ad amare, e forse per la prima volta ha sete di vita.

Il Signore degli Orfani è un’opera magnifica, un romanzo seducente e terribile, lirico e tragico, un gioiello letterario di rara perfezione. Leggetelo, non lo dimenticherete.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Marsilio Editore, è di Fabio Zucchella. Buona lettura.
Cittadini, accorrete, perché stiamo per trasmettervi importanti aggiornamenti! In cucina, in ufficio, in fabbrica, ovunque siano presenti i vostri altoparlanti, alzate il volume! Il nostro Caro Leader Kim Jong Il è apparso in tutti i notiziari locali mentre offriva consigli agli ingegneri che stavano scavando il canale del fiume Taedong. Durante il suo discorso agli operai addetti alle draghe, è stato visto librarsi sopra la sua testa un gran numero di colombe, accorse lì per offrire al nostro Reverendo Generale l’ombra di cui tanto abbisognava in una giornata così calda. Vi segnaliamo ora una richiesta del Ministro della Sicurezza Pubblica di Pyongyang: cittadini, anche se la stagione della caccia ai piccioni è in pieno svolgimento, tenete panie a archetti fuori della portata dei nostri compagni più giovani. Inoltre, cittadini, non dimenticate che il divieto di osservare le stelle è sempre valido. Più tardi riveleremo la ricetta vincente del concorso di cucina del mese. Sono pervenute a centinaia, ma soltanto una può diventare il miglior modo di cucinare la zuppa di buccia di zucca!

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