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Appuntamento ad Alexanderplatz

Recensione di “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin

Alfred Doblin, Berlin Alexanderplatz, Rizzoli
Alfred Döblin, Berlin Alexanderplatz, Rizzoli

Quella di Franz Biberkopf è un’esistenza ai margini. Una vita sordida, di miseria materiale e morale, che prima brucia sulla pelle come una ferita e poi, proprio quando sembra guarire e rimarginarsi, si fa memoria prendendo l’odiosa forma di cicatrice. La cicatrice che Biberkopf si porta addosso è il suo destino, la sua condanna; egli è un uomo perduto, qualsiasi cosa cerchi di fare per evitarlo.


Non è un caso che la sua storia prenda avvio proprio da una prigione, quella da cui esce dopo aver scontato, a causa di “vecchie colpe”, quattro anni di reclusione. Franz Biberkopf è l'(anti)eroe di Berlin Alexanderplatz, romanzo-capolavoro di Alfred Döblin; un’opera per molti aspetti unica, di assoluta originalità, che mentre segue da vicino, con un stile ordinato ma freddo, da resoconto cronachistico, la caduta verticale di un uomo, la strada verso la sua fine, sullo sfondo di questa vicenda dà vita a un mondo intero di azioni, persone, sentimenti, moventi, psicologie. E quel mondo è insieme metafora di una società dispersa, sradicata da sé (il romanzo è del 1929), e della vita, considerata come organismo autonomo, spietato nella sua intangibilità, entità estranea alle esistenze dei singoli, che a essa partecipano solo biologicamente.

Ed è questa la vita che ha piegato Biberkopf, colpevole, scrive Döblin, “di pretendere da essa più che il pane quotidiano”. 
Pensandoci, non è forse ciò che chiediamo tutti alla vita?

Ora spazio all’autore con l’incipt del romanzo.

Fermo davanti alla porta della prigione di Tegel, era libero. Ancora ieri insieme agli altri aveva raccolto patate nei campi dietro il penitenziario, vestito da forzato, ora se ne andava attorno con un soprabito giallo, leggero, gli altri stavano ancora dietro a raccogliere le patate, lui era libero. Lasciava i tram passargli dinanzi uno dopo l’altro e lui teneva poggiata la schiena alla parete rossa e non si muoveva. Il custode gli passò dinanzi un paio di volte e gli mostrò il suo tram; ma lui non si muoveva. Il momento terribile era venuto (terribile, Franz, perché terribile?). I quattro anni erano passati. I ferrei battenti neri della porta, che da un anno egli aveva osservato con crescente avversione (avversione, perché avversione?) s’erano chiusi dietro a lui. L’avevano messo fuori.

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