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La lunga strada verso l’umanità

Recensione di “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee

Harper Lee, Il buoi oltre la siepe, Feltrinelli
Harper Lee, Il buio oltre la siepe, Feltrinelli

La prosa di Harper Lee ha il ritmo dolcemente ipnotico dei racconti che si ascoltano intorno al fuoco, delle storie che ci accompagnano verso il sonno. È quieta, avvolgente, regolare come un respiro, come la carezza del mare lungo la rena, e allo stesso tempo è curiosa, vivace, attraversata da scosse elettriche di entusiasmo e da un desiderio, che sembra destinato a rimanere inappagato, di conoscenza, di risposte.


Nel suo capolavoro, Il buio oltre la siepe, meritatamente diventato un classico della letteratura, la scrittrice americana si misura con un tema delicatissimo, quello dell’educazione alla tolleranza, e lo declina in quasi tutte le sue sfumature, affrontandone le diverse implicazioni con coraggio e limpida onestà intellettuale.

Tolleranza, nelle comunità chiuse del sud degli Stati Uniti negli anni trenta, significa prima di tutto questione razziale, dunque diffidenza, quando non aperta ostilità e persecuzione della popolazione bianca nei confronti dei neri, ed è questo, infatti, il cuore del romanzo, che racconta l’impari lotta condotta dall’avvocato Atticus Finch (bianco), difensore di un uomo di colore accusato di violenza carnale, contro un intero paese pronto al linciaggio e perfino contro il sistema della giustizia, talmente inquinato dal pregiudizio da aver dimenticato (o peggio, rinnegato) i propri principi fondanti.

Ma tolleranza è anche il difficile percorso di crescita di una bambina, Scout, una delle figlie dell’avvocato Finch, la cui esperienza del mondo e delle cose si muove tra inconciliabili opposti: da una parte l’opprimente atmosfera della cittadina in cui vive, satura di odio trattenuto a fatica, di preconcetti, di approssimative e manichee distinzioni tra ciò che è bene (cioè accettato dai più) e ciò che è male (cioè inviso ai più); dall’altra i pacati ma netti insegnamenti di Atticus, la fermezza con la quale difende la propria indipendenza di pensiero, l’esempio che offre ai suoi bambini scegliendo di percorrere, costi quello che costi, la strada meno facile, quella che probabilmente non condurrà né al successo né alla generale approvazione, ma che non causerà mai rimpianto né vergogna.

Ed è proprio a Scout, alla sua innocenza assetata di vita, conoscenza, amore e gioia, alla sua naturalissima paura di tutto ciò che non comprende, che Harper Lee affida la narrazione della storia. Raccontando di Atticus, del suo modo di essere padre, del suo lavoro di avvocato difensore, delle reazioni che il processo a un nero accusato di un crimine odioso scatena nel resto del paese e dei suoi sforzi per capire tutto quel che accade intorno a lei (nel suo microcosmo di bimba così come nel mondo che la circonda), la piccola comincia a percorrere la strada che la condurrà alla maturità, una strada nella quale bellezza e orrore, luce e oscurità si mescolano come i colori nella tavolozza di un pittore. La nostra strada, che lo splendido romanzo di Lee ci aiuta ad attraversare.

Eccovi l’incipt dell’opera. Buona lettura.

Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all’epoca in cui si ruppe malamente il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di giocare a football non ci pensò quasi più. Il braccio sinistro gli era rimasto un po’ più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla coscia, ma a Jem non importava un bel nulla: gli bastava poter continuare a giocare, poter passare o prendere la palla al volo.

Poi, quando di anni ne furono trascorsi tanti da poterli ormai ricordare e raccontare, ogni tanto si discuteva di come erano andate le cose, quella volta. Secondo me tutto cominciò a causa degli Ewell, ma Jem, che ha quattro anni più di me, diceva che bisognava risalire molto più indietro, e precisamente all’estate in cui capitò da noi Dill e per primo ci diede l’idea di far uscire di casa Boo Radley.

Ma allora, ribattevo io, se si voleva proprio risalire alle origini, perché non dire che la colpa era di Andrew Jackson? Se il generale Jackson non avesse incalzato gli indiani creek lungo il ruscello, Simon Finch non avrebbe risalito l’Alabama con la sua piroga, e dove saremmo noi, a quest’ora? Eravamo troppo grandi, ormai, per risolvere la controversia a botte; consultammo nostro padre Atticus, e lui disse che avevamo ragione tutti e due.

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