Recensione di “Alce Nero parla” di John J. Neihardt
Rimase ancora in silenzio qualche minuto; poi disse qualcosa a un suo nipotino, che era seduto vicino a noi, e il ragazzo si diresse di corsa verso una capanna di tronchi in cima al colle. Ritornò con un ornamento sacro, il quale, come poi venni a sapere, era appartenuto al padre di Alce Nero (anche lui stregone), e per molti anni padre e figlio se ne erano serviti nelle loro cerimonie sacre.
Questo ornamento è fatto di una stella di cuoio, dipinta di azzurro, e dal centro della stella pende una striscia di pelle, del petto di un bufalo, e una penna, dell’ala di un’aquila. L’ornamento in questione è appeso a una striscia di cuoio che va messa al collo. Alce Nero prese la stella, e reggendola in mano per farcela vedere, disse: «Ecco la Stella del Mattino. Colui che vede la Stella del Mattino vedrà di più, perché sarà sapiente». Poi sollevò la penna d’aquila e disse:«Questo significa Wakon Tonka (il Grande Essere Misterioso); e significa anche che i nostri pensieri dovrebbero elevarsi in alto, come fanno le aquile». Poi sollevò la striscia di pelle di bufalo e disse: «Questo significa tutte le cose buone di questo mondo – cibo e casa». Mi diede l’ornamento e mi disse: «Amico, tutte queste cose ti auguro. Mettilo al collo».
Così John G. Neihardt, nella prefazione al suo splendido libro, Alce Nero parla (un’opera sfaccettata e complessa, a metà tra saggio, racconto, confessione personale e viaggio in una dimensione sconosciuta), descrive il primo incontro con questo anziano sciamano Sioux Lakota della famiglia Oglala, che a soli nove anni di età ha ricevuto in dono una grande visione di potere. Nella visione Alce Nero entra in contatto con le primordiali forze della natura, con l’inconoscibilità che è forse il fondamento primo della storia dei popoli e dei popoli stessi; la accoglie in sé, si sforza di comprenderla e di leggere attraverso essa tutto quel che accade e di cui è testimone – gli scontri tra indiani e bianchi; il declino progressivo dei nativi, cui non basta aggrapparsi alla propria fierezza e alla virtù guerriera per resistere all’avanzare dei “tempi nuovi”; il trionfo di Little Big Horn e la sconfitta definitiva e tragica di Wounded Knee – e si rende conto che la straordinaria esperienza vissuta trascende il semplice scorrere del tempo, e perfino il destino della sua gente.
È qualcosa d’altro, di più. È un dono, spiega a Neihardt, “che mi è stato dato per gli uomini, ed è vero, ed è bello”. E proprio a Neihardt Alce Nero consegna, dopo decenni di silenzio, la sua eredità. Siede con lui, giorno dopo giorno, e racconta la sua vita; qualche volta in loro compagnia ci sono altre persone, amici e compagni di Alce Nero, che arricchiscono la sua narrazione con i loro ricordi; così, alla ricostruzione del passato si sovrappone – in una sorprendente e felice continuità narrativa che mantiene scorrevole la lettura – lo spalancarsi dell’universo spirituale dell’“uomo sacro”, poi si torna alla storia così come tutti la conosciamo, ma è come se immediatamente al di là di quel che gli occhi ci permettono di vedere riposasse un significato ulteriore, qualcosa di simile a una spiegazione, a un traguardo.
Qualcosa che non pur non avendo il potere di cambiare le cose – le parole di Alce Nero sono colme di dolore, il dolore chi ha visto la propria gente morire, il proprio mondo finire, e sanguinano della rassegnazione di chi è stato costretto ad accettare tutto questo – ha la capacità di rendere la realtà diversa da ciò che abbiamo sempre creduto fosse. E che si rivolge a ognuno di noi.
Eccovi l’inizio del libro. Buona lettura
Alce Nero parla:
Amico, ti racconterò la storia della mia vita, come tu desideri; e se fosse soltanto la storia della mia vita credo che non la racconterei, perché che cosa è un uomo per dare importanza ai suoi inverni, anche quando sono già così numerosi da fargli piegare il capo come una pesante nevicata? Tanti altri uomini hanno vissuto e vivranno la stessa storia, per diventare erba sui colli. È la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare, e di noi bipedi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi; perché sono tutti figli di una stessa madre e il loro padre è un unico Spirito. Questo, dunque, non è il racconto di un grande cacciatore né di un grande guerriero, né di un grande viaggiatore, sebbene ai miei tempi io abbia cacciato molta carne e lottato per la mia gente, sia da ragazzo che da uomo, e sia andato lontano e abbia visto strane terre e uomini strani. Lo stesso hanno fatto molti altri, e meglio di me. Queste cose le ricorderò nel mio racconto, e spesso potrà sembrare che esse costituiscano il racconto stesso, come quando le vivevo, nella felicità e nella disgrazia. Ma adesso che posso vedere tutto ciò come dall’alto di un colle solitario, so che era la storia di una potente visione, concessa a un uomo troppo debole per servirsene; di un albero sacro che avrebbe dovuto fiorire nel cuore di un popolo, con fiori e uccelli cantori, e che adesso si è seccato; e del sogno di un popolo che morì nella neve insanguinata. Ma se la visione era vera e potente, come io so, essa è vera e potente ancora; perché simili cose sono dello spirito, ed è nell’oscurità dei loro occhi che gli uomini si perdono.