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Il mistero buffo di Tullio Avoledo

Recensione di “L’elenco telefonico di Atlantide” di Tullio Avoledo

Tullio Avoledo, L'elenco telefonico di Atlantide, Einaudi
Tullio Avoledo, L’elenco telefonico di Atlantide, Einaudi

L’elenco telefonico di Atlantide, romanzo d’esordio di Tullio Avoledo, è un piccolo gioiello letterario.

L’intreccio, improbabile eppure condotto con attenzione e puntualità, come se si trattasse di una vicenda se non vera almeno verosimile, mescola tra loro i generi più diversi (mystery, thrilling, fantascienza e altro ancora) ed è costantemente attraversato da un’ironia pungente, vivissima, in grado di esplodere in gag fulminanti o di accompagnare con educata discrezione l’evolversi di quel che accade pagina dopo pagina, arricchendo ulteriormente uno stile di scrittura di invidiabile bellezza, dinamico e allo stesso tempo lieve; raffinato e arguto; talmente originale da essere spiazzante e, quel che più conta, irresistibilmente divertente dal principio alla fine. Questa scintillante architettura narrativa si deve all’incontro di due fattori: da una parte il cristallino talento dell’autore e dall’altra la sua intelligente capacità di non prendersi mai troppo sul serio. L’opera prima di Avoledo ha la fresca spontaneità di un gioco, nasce quasi da sé, trascinata dal puro e semplice desiderio di raccontare; è un omaggio alle passioni gemelle della lettura e della scrittura.

In più di un’occasione lo scrittore friuliano anima il suo lavoro con la materia grezza dell’autobiografia, ma riesce sempre a tenersi prudentemente lontano da qualsiasi trappola personalistica; lo fa nel tratteggiare il protagonista della vicenda, Giulio Rovedo, responsabile dell’ufficio legale di una piccola banca (la cui ragione sociale è, di per sé, un capolavoro di genialità: Cassa di Credito Cooperativo del Tagliamento e del Piave, acronimo degno della migliore stagione dell’Unione Sovietica: CCCTP), e, con piacevolissimo vezzo d’autore, in apertura di alcuni capitoli, dove, invece delle solite, colte (e un po’ snob) citazioni tratte dai grandi nomi della letteratura mondiale (che comunque non mancano; ci sono, per esempio, François Villon, Dylan Thomas e Bertolt Brecht), mette curiosi giochi di parole – sicuramente inventati nel corso di lunghe serate trascorse con gli amici – che modificano celebri titoli di film cambiandone solo una lettera (ma è contemplata anche la possibilità, al posto della sostituzione, di toglierne o aggiungerne una); il nuovo titolo, naturalmente, deve essere giustificato da una spiegazione. Eccovi alcuni esempi, tanto azzeccati quanto spassosi: Il decimo attore della compagnia ha dato forfait (Shakespeare in nove); Schiacciato da un rullo compressore nelle ore antimeridiane (Ore 10: salma piatta); Conti separati (Sette spese per sette fratelli); Spettatori troppo disinvolti a teatro (A piedi nudi nel palco); Bibita gassata transilvanica (Dracola).

Quanto alla trama, basti dire che non risparmia colpi di scena e sorprese, che prende avvio da un condominio di una cittadina di provincia (la cui unica particolarità sembra la sua assoluta bruttezza) e arriva a sfiorare i misteri dell’antico Egitto e la leggendaria Arca dell’Alleanza. Vi sembra folle? Anche a Giulio Rovedo, almeno inizialmente, ma poi…

Lasciatevi sedurre da questo romanzo di Avoledo. Vi regalerà ore di autentico spasso. Eccovi l’inizio, una magistrale descrizione del condominio Nobile, dove tutto comincia. Buona lettura.

Il condominio Nobile è diviso in tre parti: scala A, scala B e il lungo tunnel delle cantine che unisce le due metà simmetriche: quella che si affaccia sul trafficato viale Montessori e quella relativamente più tranquilla che guarda verso il collegio Rosmini. La forma dello stabile ricorda una U con braccia molto corte, o un punto per cucitrice da ufficio. Il condominio, come la luna, ha un lato perennemente in ombra e l’altro costantemente esposto al sole. Sul retro l’edificio è chiuso dal muro grigio del collegio e non gode di luce diretta nemmeno nel giorno più lungo dell’anno. In Giappone gli appartamenti sul retro avrebbero diritto a un’indennità, per quel muro chiazzato d’umido che li danna a non vedere mai il sole. Qui si accontentano di allungare una camera verso il lato anteriore, dove però, per contrappasso, l’irradiazione solare è a livelli teratogeni. Nei loro beati e ignari anni Sessanta, i progettisti devono aver concepito l’edificio per esseri umani dotati di incredibili capacità di resistenza agli sbalzi termici. Le generazioni condominiali successive, di fibra meno eroica dei primi coloni, si sono via via attrezzate con tecnologie sempre più sofisticate e costose, dai ventilatori da tavolo a quelli industriali ai Pinguini De Longhi, fino all’ultima generazione di condizionatori a parete Toshiba e Panasonic. Tracce di esperimenti falliti marchiano la facciata del condominio; dalle pellicole scurenti applicate sui finestroni ai crateri malamente occlusi dei condizionatori, dalle tende a pacchetto in vari stadi di collasso alle prese d’aria. Di terrazza in terrazza e di piano in piano della scala B corrono infine tubi metallici superstiti, dopo un tentativo da parte di alcuni proprietari di rendere autonomo il riscaldamento (tentativo abortito dopo tre assemblee straordinarie e due diffide legali).

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