Recensione di “Quella solitudine immensa d’amarti solo io” di Paolo Pizzato
Eleonora Molisani, cara amica, di professione giornalista, ha letto Quella solitudine immensa d’amarti solo io, Priamo e Meligrana Editore. Queste le sue considerazioni, che mi hanno commosso e che desidero condividere con voi. Ringrazio di cuore Eleonora per le sue splendide parole, per aver letto con così tanta partecipazione il libro. E nuovamente ringrazio gli editori per aver pubblicato il mio lavoro.
Ogni volta che devo prendere un treno scelgo un libro da leggere. Di solito quello che spesso si rivelerà un buon libro è anche la mia coperta di Linus: se mi prende, me lo divoro alla stessa velocità di un freccia rossa; se mi annoia, lo uso da scudo, da legittima difesa (se c’è una cosa che odio in viaggio è: “parlare del più e del meno”). Beh, il giorno che ho preso in mano Quella solitudine immensa d’amarti solo io non ho quasi mai guardato il mare, fuori dal finestrino. L’autore mi aveva anticipato: “È un romanzo sussurrato”. E allora perché io, più che sussurri, sentivo grida? In meno di cinque ore l’ho divorato, e ho scritto subito un messaggio a Paolo, chiedendogli se per caso avesse già scritto il sequel. O il prequel. Insomma, qualcosa che mi aiutasse a non sentirmi orfana di quello che ancora rimaneva misterioso, oltre quelle pagine. Nei romanzi c’è chi si appassiona alla trama, chi allo stile, io oscillo, vago alla ricerca di qualcosa che mi scuota. Tanto da coniare il termine IDV, che “non c’azzecca” con il partito del magistrato-contadino, ma indica l’Indice di Voracità. Da che cosa è determinato? È assolutamente casuale, perché alla fine in un’opera d’arte ciascuno di noi “legge” o “trova” quello di cui, in quel momento, ha più bisogno. Apprezza quello che è più vicino alla sua sensibilità. La forza di questo romanzo, per quanto mi riguarda, è che dentro ci sono cose che – anche se provi a sussurrarle – urlano di loro. C’è la tragedia – che so immensa, perché provata – di mettere al mondo un figlio senza poter condividere cosa si prova con chi ha messo al mondo te (“non avere nessuno a cui telefonare”). È una forma di deprivazione totale, è il senso orribile della parola orfani (non a caso, contenuta nella prima versione del titolo).
L’orfano rimane orbo di chi lo ama incondizionatamente. Perdere i genitori è rimanere, e sentirsi, irrevocabilmente soli al mondo. Impantanati in quel senso di ingiustizia, di invidia mista a rabbia, verso chi – nonostante conflitti e rancori – può ancora mandare affareinculo chi li ha generati.
L’orfano sa che cosa significhi perdere per sempre l’amore gratuito: da quel momento in poi deve cercare di meritarselo. E non è facile, né scontato. C’è dentro l’annichilimento, la sensazione alienante di sentirsi spettatori della propria vita. Il senso di inadeguatezza, il tentativo di immergersi nelle cose senza sentirsi affondare. Lo scegliere deliberatamente di restare a galla, sulla superficie, a guardare. L’opzione estrema di non partecipare alle emozioni per non esserne schiacciato, sopraffatto. L’annichilimento non è mai vera indifferenza: è l’incapacità di gestire la distanza emotiva tra se stessi e il mondo. C’è poi l’entusiasmo, l’eccitazione galvanizzante di diventare genitore, mista al terrore di non esserne capace. È l’unica esperienza della vita che ci chiede un vero passo indietro (non siamo più noi i più importanti) e un vero passo avanti (non abbiamo più guide, siamo noi a dover tracciare una strada): l’unico vero spartiacque tra infanzia ed età adulta. C’è l’incomunicabilità generazionale: di solito non si insegna ai bambini l’ascolto, così si diventa adulti incapaci di ascoltare. Il risultato sono i conflitti a prescindere, senza che ci sia quasi mai un vero tentativo di comprendere l’altro. “Evitare e differire” – dice l’autore – definendo così l’eterna menzogna di certi rapporti genitori-figli. Infine, di sottofondo, c’è questo amore grande, come “raffreddato”, che desidera – per tutto il tempo – la disibernazione. Sembra che rimanga soffocato in gola (come nel bellissimo titolo) il bisogno di fusione, di intimità, la voglia di condividere davvero, “sporcandosi” l’uno con il bagaglio emotivo dell’altro. C’è la sete di provare l’ebbrezza di certe passioni, che a volte diventa poi anche la loro disgrazia e loro fine.
Insomma c’è tanto, ed è sorprendente vedere tutto – come nella sceneggiatura di un film – dal punto di vista di lei e di lui (con il solito paradosso che nella storia l’assenza di lui è più incombente della presenza di lei).
Insomma, mai come in questo caso mi viene in mente la frase di Ugo Foscolo: “L’uomo non si accorge quanto egli possa fare, se non quando tenta, medita e vuole”. Questo libro l’ho percepito come un concepimento faticoso, ma fortemente voluto. Ed ora è arrivato il parto. Spontaneo. E, finalmente, (quasi) indolore.