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Lontano come un desiderio. O una speranza

Recensione di “L’ultima favola russa” di Francis Spufford

Francis Spufford, L’ultima favola russa, Bollati Boringhieri

L’utopia comunista, il sogno di una società giusta, dell’uguaglianza, anzi della fratellanza tra gli uomini, finalmente realizzato; il profetico comandamento di Marx “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” divenuto realtà; le immense potenzialità di un’economia pianificata, perfettamente equilibrata nella produzione come nella distribuzione, trasformate in un sistema autonomo e autosufficiente; la promessa della costruzione di un mondo davvero diverso, di una nuova età dell’oro, della felicità e dell’abbondanza per tutti, mantenuta, realizzata.

Insomma, l’idea, la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, incarnata. Ed è proprio l’idea, con tutto il suo carico di meraviglia e la sua entusiastica vitalità, la materia narrativa del brillantissimo romanzo-saggio di Francis Spufford L’ultima favola russa, insignito nel 2011 dell’Orwell Prize.

L’autore sceglie di raccontare l’illusione (o forse la disillusione) di un intero popolo costruendo un circolare intreccio di storie a metà tra invenzione e documentata ricostruzione, e affidandosi a uno stile spumeggiante, sorprendentemente raffinato e solido, ironico, arguto, di divulgativa chiarezza nei passaggi più difficili (come gli studi sulla possibile rivoluzione cibernetica e i nodi e le difficoltà delle strategie industriali) e nello stesso tempo fantastico, chimerico, sovrabbondante. Richiamandosi apertamente alla tradizione fiabesca del grande folclorista Aleksandr Nikolaevic Afanas’ev, Spufford non si limita a restituire intatto un determinato periodo storico (per la precisione il decennio dominato dalla figura di Nikita Krusciov, primo segretario del comitato centrale del partito comunista sovietico dal 1953 al 1964) ma ne fa rivivere per intero l’atmosfera, permeata dalle attese della gente comune, elettrizzata dal crescente ottimismo dei leader, nutrita dai progetti di scienziati come il geniale matematico Leonid Kantorovic, padre della programmazione lineare e premio Nobel per l’economia nel 1975.

La favola russa di Spufford (l’ultima prima del gelido inverno brezneviano e del successivo, definitivo crollo dell’apparato politico-economico) è un omaggio divertito e commosso a una stagione irripetibile, un ricordo nostalgico, un’invenzione bizzarra e affascinante che della verità ha il profumo, o per dir con maggior esattezza il desiderio: “Se le favole occidentali”, spiega l’autore, “iniziano con uno sfasamento temporale – «C’era una volta» si dice, sottintendendo un altro tempo, un allora anziché adesso – le skazki russe trasportano il lettore nello spazio: «In un certo reame, in un certo stato» oppure «In un paese lontano», rimandando a un altrove, a un anziché qui. Eppure si tratta sempre di un altrove riconducibile alla madre Russia. All’orizzonte compare sempre una città cinta da una palizzata, con le chiese dalle cupole a cipolla. Il governante è sempre uno zar, Ivan o Dmitrij. Il cielo sempre immenso. È la Russia, sempre e comunque la Russia, quel caro, spaventoso territorio sconfinato ai margini dell’Europa, grande come tutto il resto d’Europa messo insieme. E allo stesso tempo non lo è. È la Russia della fantasia, che non combacia mai perfettamente con lo Stato di cui porta il nome, al quale è vicina quanto un desiderio è vicino alla realtà. E altrettanto lontana”.

È nello scarto tra il desiderio e la sua realizzazione, nell’illusione che poco alla volta ma inesorabilmente cede il passo alla logica implacabile della realtà che il libro di Francis Spufford prende vita; la pesante ombra del fallimento storico dell’Unione Sovietica che ne permea ogni pagina, che incombe come un destino ineluttabile, non è che un tassello del suo mosaico, perché lo scrittore, pur muovendosi nel solco di un rigoroso realismo (il libro ha un corposo apparato di note, essenziali per seguire il racconto, che si snoda per quasi 500 pagine), lascia sempre aperta la porta del possibile; lo fa creando personaggi ispirati a figure reali ma dotate di una propria autonomia di pensiero (è il caso, per esempio, della biologa Zoja Vajnstejn, il cui corrispettivo storico è la genetista Raissa Berg), grazie ai quali può permettersi di alterare, anche se mai sostanzialmente, il corso della storia, e soprattutto non abbandonando mai lo spirito più autentico della narrazione fiabesca, uno dei cardini della cultura popolare russa. Perché nelle fiabe accadono meraviglie di ogni genere, e accadono in Russia.

Eccovi l’inizio del libro (traduzione è di Carlo Prosperi, edizione Bollati Boringhieri). Buona lettura.

Stava arrivando il tram, in uno stridio di metallo e scintille bianche e blu che sprizzavano verso il buio dell’inverno. Con la testa altrove, Leonid Vital’evic aggiunse il proprio contributo alla spinta esercitata dalla folla sgomitante e fu sollevato insieme al resto della collettività oltre il gradino posteriore, nella ressa di carne umana al di là della porta a fisarmonica. «Forza, cittadini! Spingete!» disse una signora bassina accanto a lui, come se avessero una scelta, come se potessero decidersi se muoversi o no quando tutti, nei tram di Leningrado, erano costretti all’eterna lotta per passare dall’ingresso sul fondo all’uscita sul davanti in tempo per la fermata giusta. Eppure il miracolo sociale si ripeteva sempre: da qualche parte, all’estremità opposta, un gruppetto di passeggeri veniva vomitato sull’asfalto e un’onda scomposta percorreva la carrozza, una peristalsi tramviaria che a forza di gomiti e spalle creava lo spazio appena sufficiente in cui pigiarsi prima che la porta di entrata si richiudesse. Le lampadine gialle che pendevano dal tettuccio vacillarono, e il tram si rimise in marcia con un ronzio crescente.

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