Recensione di “Senza un soldo a Parigi e a Londra” di George Orwell
Un romanzo che vive nella sottrazione, che si alimenta della nudità della scrittura nello stesso modo in cui altre opere vengono nutrite dal rigoglio espressivo della prosa, dall’eleganza della forma, e in tal modo riconosce all’essenziale realismo della cronaca piena dignità letteraria. A ben guardare un romanzo che nega se stesso per raccontarsi come esperienza , come vissuto, e rappresentare il senso ultimo del lavoro dello scrittore così com’è stato concepito dall’autore stesso: “Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia.
Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: «Voglio produrre un’opera d’arte». Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare”. Così George Orwell (in Perché scrivo, 1946), parole che in quel momento suonavano come dichiarazione programmatica e manifesto politico (“Ogni riga di lavoro serio che ho prodotto dal 1936”, aggiunge infatti Orwell, “l’ho scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e per il socialismo democratico così come lo intendo io”), ma che erano state anticipate, nel loro significato a un tempo universale ed emotivo, dal suo esordio, Senza un soldo a Parigi e a Londra, pubblicato nel 1933.
Diario, libro di memorie, indagine sociologica, duro pamphlet di denuncia, Senza un soldo a Parigi e a Londra, che per ambientazione (la periferia, urbana ed esistenziale, di queste due metropoli e di coloro che sono costretti ad abitarvi, costruendo a fatica la propria sopravvivenza giorno dopo giorno) sembra richiamare suggestioni dickensiane, è un resoconto serrato, lucido e impietoso di quel che è, nei fatti, la condizione di povertà.
È una diagnosi della miseria, e delle conseguenze che ha su coloro cui si abbatte, precisa come lo sarebbe quella di una malattia. Orwell non si concede scappatoie, né licenze artistiche; si limita a descrivere, come un disegnatore in una copia dal vero, a rappresentare quel che vede e vive, e lascia che siano le parole, spogliate di ogni orpello come lo sono gli uomini e le donne indigenti (dunque privati di tutto, o quasi), a colpire, scuotere, sconvolgere.
“Nel complesso il primo contatto con la miseria è un fatto curioso. Ci avete pensato tanto, alla miseria: l’avete temuta tutta la vita, sapevate che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso; ma in realtà tutto è totalmente, prosaicamente diverso. V’immaginavate che fosse una cosa semplicissima, e invece è quanto mai complicata. V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa. Innanzitutto scoprite l’abiezione della miseria, gli espedienti ai quali vi costringe, le complicate meschinità, le pitoccherie […]. E poi ci sono i pasti, che rappresentano la difficoltà maggiore […]. Scoprite che cosa vuol dire avere fame […]. Scoprite il tedio, che è compagno inseparabile della miseria […]. Scoprite che quando un uomo va avanti una settimana a pane e margarina non è più un uomo; è solo un ventre con qualche organo accessorio”.
Il rovescio della medaglia della miseria è la carità, lo sforzo che si compie per contrastarla, l’aiuto pubblico offerto dalle istituzioni a vagabondi, senzatetto, derelitti di ogni sorta. Un sistema che profuma di misericordia ma puzza del sudore e del sudiciume degli ospiti di dormitori e ospizi ammassati come bestie in camerate spoglie e fredde, distesi su tavolacci malamente coperti da lenzuola che nessuno si preoccupa mai di cambiare e lavare, e che è così compreso nella dignità del proprio ruolo da dimenticarne, troppo spesso (altra lezione dickensiana), l’autentico significato, e di conseguenza la misura, e l’umanità, incancellabile malgrado tutto, di coloro che di quell’attenzione dovrebbero beneficiare. L’umanità schiacciata di un ebreo affamato che divora con aria colpevole un pezzo di pancetta, e quella umiliata dall’assurdo rigore “rieducativo” preteso dai benefattori come un diritto: “[…] ho passato la notte in parecchi dormitori dell’Esercito della Salvezza e ho visto che, sebbene fra l’uno e l’altro ci sia qualche differenza, in tutti vige la stessa disciplina quasi militare […]. In alcuni ci sono anche funzioni religiose obbligatorie una o due volte la settimana, e chi non le frequenta deve lasciare il dormitorio. Il fatto è che nell’Esercito della Salvezza è talmente radicata l’abitudine di considerarsi un istituto di beneficenza, che non si può gestire nemmeno un dormitorio pubblico senza farlo puzzare di carità”.
Scritto etico (e come tale anche profondamente politico), Senza un soldo a Parigi e a Londra non offre soluzioni. Non è, come ammette lo stesso Orwell, che una storia, un racconto che non ambisce né a insegnare né ad ammonire, ma che a colui che questa storia ha vissuto in prima persona qualcosa ha lasciato: “Non penserò mai più che tutti i vagabondi siano furfanti ubriaconi, non mi aspetterò gratitudine da un mendicante quando gli faccio l’elemosina, non mi sorprenderò se i disoccupati mancano di energia, non aderirò all’Esercito della Salvezza, non impegnerò i miei abiti, non rifiuterò un volantino, non gusterò un pranzo in un ristorante di lusso. Questo tanto per cominciare”.
Eccovi l’incipit (traduzione di Isabella Leonetti). Buona lettura.
Parigi, rue du Coq d’Or, le sette del mattino. Una sequela di urla strozzate e furibonde dalla strada. Madame Monce, la padrona dell’alberghetto di fronte al mio, era uscita sul marciapiede per apostrofare una pensionante del terzo piano. Aveva i piedi nudi infilati negli zoccoli e i capelli grigi appiccicati alla fronte.
MADAME MONCE: «Sacrée salope! Quante volte le ho detto di non schiacciare le cimici sulla carta da parati? Cosa crede, di averlo comprato, l’albergo? Non può buttarle dalla finestra come fanno tutti? Espèce de trainée».
LA DONNA DEL TERZO PIANO:«Va donc, eh! Vieille vache!».