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Le misure spezzate

Recensione di “I fratelli Oppermann” di Lion Feuchtwanger

Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann, Skira editore
Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann, Skira editore

Ieri è la Germania del 1932. Un Paese economicamente in ginocchio, umiliato dalle durissime, inique condizioni di pace imposte dal Trattato di Versailles all’indomani della fine del primo conflitto mondiale. Un Paese prostrato, nel cui grembo cresce furiosa l’ansia di vendetta; uno stato scosso dal desiderio di rivincita, ammalato d’odio ma ancora saldo nel diritto.


Oggi è la Germania del 30 gennaio 1933, giorno in cui Adolf Hitler viene nominato Cancelliere. Oggi è il momento in cui un intero popolo viene sedotto e travolto da un’ideologia esasperata e folle, da un nazionalismo cieco e furibondo, da parole d’ordine tanto semplici quanto violente, da reiterati appelli a tutto ciò che meno ci contraddistingue come esseri umani ma che pure profondamente ci appartiene: la sete di rivincita, la meschina seduzione dell’interesse personale, l’abitudine a responsabilizzare il prossimo per i nostri fallimenti, l’elogio svergognato della menzogna sistematicamente contrabbandata per verità, la scandalosa perversione della scienza, ridotta a mero strumento propagandistico. Oggi è il tempo di tutto ciò che è immediato, è l’esaltante stagione dell’impetuosità, dell’azione, e soprattutto della definitiva eliminazione di ogni superfluo ostacolo all’esplosione delle “energie vitali” dell’uomo: il pensiero, la coscienza, la colpevole debolezza insita nell’esitare.

Domani è il compiersi dell’età nuova e il maturare in essa dell’uomo nuovo, è il miracoloso crescere e moltiplicarsi della razza pura e superiore, è lo straripare della “giusta collera del popolo germanico” nei confronti di tutti coloro che lo hanno vessato, è la punizione finalmente comminata ai traditori che hanno “assassinato la nazione pugnalandola alle spalle”: gli ebrei, genia di corrotti e corruttori, mortale infezione del sangue tedesco.

Ieri, oggi e domani, tappe della progressiva e inarrestabile discesa agli inferi di persecutori e perseguitati, sono i capitoli, tematici e cronologici, in cui è diviso I fratelli Oppermann di Lion Feuchtwanger, in parte cronaca (il romanzo venne pubblicato nel 1933) e in parte impressionante, lucidissima anticipazione degli orrori del regime hitleriano.

Feucthwanger racconta l’irrompere dell’incubo nazista guardando all’anima di un popolo, alla sua saldezza etica, alla sua dirittura morale, al suo spirito, ed è con disincanto, con pietà e turbamento prima che con indignazione che è costretto a constatarne il naufragio, la deriva, il brutale imbarbarimento. La sua voce, di cristallina chiarezza e nonostante ciò isolata, impotente, è quella dei morti e dei sopravvissuti: di coloro che sono caduti vittime del sanguinario delirio nazionalsocialista e di coloro che, per caso, fortuna o astuto calcolo, sono riusciti a sfuggirgli.

Protagonisti del suo lavoro, sullo sfondo di una Berlino che è immagine della Germania tutta e di un’organizzazione sociale che è impietoso specchio dell’“umanità tedesca”, sono tre fratelli ebrei (gli Oppermann del titolo). Nati e cresciuti in Germania, dove hanno contribuito ad aumentare la fortuna dei propri padri (uno è un celebre chirurgo, uno il responsabile della prospera azienda di famiglia, un mobilificio, il terzo un agiato borghese che trascorre il proprio tempo interessandosi di filosofia, in particolar modo di Lessing, di cui sta scrivendo una biografia), padri a loro volta, gli Oppermann assistono dapprima con ironica incredulità, poi con sgomento, infine con dignitoso fatalismo al calare delle tenebre: ciascuno di loro resiste, come può, al ribaltamento dell’ordine voluto dai “nuovi padroni” della Germania, ma quel che è in gioco in questo tragico momento storico, spiega Feuchtwanger con un’intensità d’accenti che lascia senza fiato, non è tanto la salvezza di alcuni, o di moltissimi, quanto l’empietà cui deliberatamente si condanna un popolo ribattezzato razza nel sangue.

Nell’elencare le nefandezze delle milizie nazionalsocialiste, nella descrizione puntuale, burocratica persino, dei soprusi dell’uomo sull’uomo, della regressione a bestia di chi è stato creato a immagine somiglianza di Dio, Feuchtwanger ragiona sub specie aeternitatis: riesce a guardare oltre il momento presente, a porsi in una prospettiva più grande. E da questo punto di osservazione, la tragedia che racconta non si esaurisce in ciò che accade, si fa eco di un’amputazione radicale, eredità maligna che ci portiamo addosso come un peccato originale.

“Si sentiva tedesco nell’anima”, egli scrive a proposito di un giurista che confessa a uno degli Oppermann le atrocità di cui è stato testimone, “[…] ma era giurista fin nelle più intime fibre. Che in un popolo di sessantacinque milioni ci fossero dei violenti, dei degenerati, era spiegabile: ma da buon tedesco si vergognava che si proclamasse come norma della nazione e si fissasse per legge il non-diritto, la non-educazione dell’uomo delle foreste. Le fredde persecuzioni di lavoratori e di ebrei, la stupidaggine antropologica e zoologica fissata nella legislazione, il sadismo legalizzato, ecco che cosa lo indignava […]. Non sapeva che farsene di quel diritto tedesco che i suoi governanti avevano introdotto al posto di quello romano, basandolo sul principio che gli uomini non solo uguali tra loro, ma l’uomo nazionalsocialista è per natura il padrone e quindi superiore a tutti gli altri e da giudicarsi secondo principi di diritto diversi da quelli che si dovevano osservare verso i non nazisti […]. La Germania non era più uno stato costituzionale […]. ‘Hanno spezzato le misure del mondo civile’, disse, disperato, furibondo, a denti stretti”.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Skira editore, è di Ervino Pocar. Buona lettura.

Quando il dottor Gustav Oppermann si destò – era il 16 di novembre, il suo cinquantesimo compleanno – mancava parecchio al levar del sole. Ciò gli dispiacque. La giornata infatti sarebbe stata faticosa ed egli si era proposto di fare una bella dormita. Dal suo letto si distinguevano le cime sparute di qualche albero e un lembo di cielo. Il cielo era limpido e sereno, senza nebbia, come avveniva di rado nel mese di novembre.

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