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Benvenuto a Dallas

Recensione di “Libra” di Don DeLillo

Don DeLillo, “Libra”, Einaudi

Tra il particolare e l’universale, nella vita di uno solo e nell’esistenza di tutti, in quello spazio – che non ha nulla di fisico e che tuttavia esiste – capace di rendere una cosa sola “il mondo personale di un individuo e il mondo in generale”. Qui, in una dimensione che è allo stesso tempo metafisica e terribilmente reale, Don DeLillo radica Libra, uno dei suoi romanzi più intensi, brutali e labirintici; una storia che è insieme un tentativo di ricostruzione dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, una biografia del suo “assassino” Lee Harvey Oswald, una rivelazione del complotto ordito ai danni del presidente americano (e di cui Oswald non è che il capro espiatorio) e il racconto di quel che sarebbe potuto accadere, dei fatti come avrebbero potuto essere se non fossero andati in tutt’altro modo.


L’incombere della morte, temuta, progettata, invocata, dispensata, esibita, che dalla prima all’ultima pagina attraversa il lavoro di DeLillo, è spettro, minaccia, ombra; come una sentenza di condanna sospesa sul capo dell’imputato, come un maleficio che sta per essere pronunciato, essa è l’invisibile controcanto della narrazione. Ristagna nelle macchie di umidità sui muri, ottunde i sensi e mozza il respiro nel lezzo nauseabondo di pattumiera, miseria e decomposizione, fiacca lo spirito nella onnipresente condizione di infelicità, nella sopravvivenza stentata, nelle ambizioni frustrate, nelle ingiustizie patite senza un perché: “Guardavano la televisione madre e figlio, nella stanza del seminterrato […]. La parte superiore dello schermo era perennemente azzurra, quella centrale rosa, e la fascia più bassa di un verde ondulato […]. I suoi compagni lo prendevano sempre in giro e lui sopportava a denti stretti, percorso da una turbolenza, la realtà accettata di un bambino senza padre […]. Quando faceva freddo battevano sui tubi per avvertire l’amministratore. Avevano diritto a una temperatura umana […]. Robert era morto un afoso pomeriggio d’estate […] mentre lei aspettava Lee, e così aveva dovuto cercarsi un lavoro. Poi era stato il turno di Mr Ekdahl, quello dei larghi sorrisi, la sua migliore speranza, anzi l’unica […]. Ma Ekdahl la tradiva astutamente […]. Questo, comunque, non gli aveva impedito di combinare un divorzio truffaldino, negandole una dignitosa buonuscita. Così la vita di Marguerite era diventata una storia di continui traslochi in abitazioni sempre più scadenti”.

Nella prosa densa di DeLillo, ossessivamente frantumata in mille particolari e in pari tempo profetica, spalancata sui destini di tutti come un comandamento, sovrumana come un imperativo etico – “Fabbricheremo teorie che splendono come idoli di giada, affascinanti sistemi di ipotesi, a quattro facce, aggraziati. Risaliremo le traiettorie dei proiettili fino alle vite che occupano l’ombra, uomini in carne e ossa che gemono in sogno” – la vita non è che una confusa, cieca preparazione alla morte; con lucida disperazione, lo scrittore precipita nel mondo la teorica purezza e l’impalpabile perfezione del platonismo; così, il progressivo approssimarsi alla fine, invece che coincidere con la verità nella fusione di essere e dover essere abbraccia il suo opposto: il caos, la falsificazione sistematica, l’imbarbarimento, l’odioso arbitrio del più forte sul più debole.

Nutrito di violenza e umiliazioni, immagine deformata e simbolica di un Paese intero, Oswald è un inestricabile groviglio di contraddizioni: burattinaio e marionetta, colpevole e innocente, egli rinuncia a se stesso nel momento in cui accetta di interpretare il ruolo che gli è stato assegnato, di recitare la sua parte in una commedia che non ha letto, né mai leggerà, per intero. E Don DeLillo come un simbolo, di resa, di sconfitta, di deriva, ce lo restituisce; la sua identità frammentata, sparsa, incontrollabile, è un’arma di cui egli neppure sospetta l’esistenza ma che altri sanno perfettamente come utilizzare, è l’America che affoga nella menzogna, è la notte e l’inverno, e il soffio gelido di un vento contro cui non c’è riparo: “Lee Harvey Oswald era sveglio nella sua cella. Stava cominciando a pensare di aver trovato lo scopo della sua vita […]. Era questo il vero inizio […]. Lui e Kennedy erano complementari. La figura dell’attentatore alla finestra era inseparabile dalla vittima e dalla sua storia. Questo pensiero sosteneva Oswald nella sua cella. Gli dava quello di cui aveva bisogno per vivere […]. Aveva scoperto la verità riguardo a una stanza. Poteva vivere comodamente in una cella grande la metà di quella”.

Thriller politico, crepuscolare e grottesco “romanzo di formazione alla rovescia”, dramma collettivo, testimonianza e invenzione, Libra è un’opera suggestiva e potente, uno scintillare di terrore e di dubbio, un continuo domandare, una testarda ricerca: “Se ne siamo fuori, presumiamo che un complotto sia la perfetta attuazione di un piano. Uomini taciturni e senza nome, dal cuore disadorno. Un complotto è tutto quello che la vita normale non è. È il gioco segreto, gelido, sicuro, attento, per noi eternamente inaccessibile. Noi siamo gli imperfetti, gli innocenti che cercano di dare un senso approssimativo alla lotta quotidiana. I congiurati possiedono una logica e un’audacia che trascendono la nostra comprensione. Tutti i complotti sono l’identica vicenda di uomini che trovano una logica in qualche atto criminale. Ma forse no”.

Eccovi l’inizio. La traduzione, per Einaudi, è di Massimo Bocchiola. Buona lettura.

Quello era l’anno in cui viaggiava in metropolitana fino ai confini della città, trecento e più chilometri di binari. Gli piaceva mettersi in testa al primo vagone, le mani premute sul vetro. Il treno squarciava le tenebre. I passeggeri alle varie fermate fissavano il nulla con un’espressione messa a punto negli anni. Gli veniva da chiedersi, sfrecciando davanti a loro, chi fossero realmente. Nei tratti più veloci il suo corpo sussultava. Correvano così forte da far pensare che fossero sul punto di perdere il controllo. Lo stridore arrivava a un parossismo doloroso che lui interiorizzava come una sfida personale. Un’altra curva strappaculo. Nel rumore di quelle svolte c’era tanto ferro che quasi ne sentiva il sapore, come da bambino, quando ti metti un giocattolo in bocca. Lungo i binari adiacenti, c’erano operai muniti di lanterne. Cercava con gli occhi i topi di fogna.

3 commenti su “Benvenuto a Dallas”

  1. “Nel rumore di quelle svolte c’era tanto ferro che quasi ne sentiva il sapore, come da bambino, quando ti metti un giocattolo in bocca. ”

    Questo mi riporta alle mie esperienze da adolescnete ……

    Ciao, Paolo alla prossima

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