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Un viaggio d’ombra verso la bellezza

Recensione di “Sputerò sulle vostre tombe” di Boris Vian

Boris Vian, Sputerò sulle vostre tombe, Marcos y Marcos
Boris Vian, Sputerò sulle vostre tombe, Marcos y Marcos

Tra verità e finzione, maschera e volto, intenzione e inganno. Nella diabolica sottigliezza delle parole e delle idee, nel travestimento di un nome, nel segreto inviolabile di un corpo, di un cuore, di una mente, di una volontà, e nella pianificazione paziente, caparbia di una vendetta; e ancora in una rabbiosa sfida letteraria che ha l’odore pungente e sgradevole della scommessa e la forma perfetta di un’opera d’arte. Sputerò sulle vostre tombe, violento, sconvolgente, furibondo romanzo di Boris Vian, è un viaggio d’ombra nella straziante sincerità della letteratura e allo stesso tempo la vertiginosa denuncia della sua essenziale irraggiungibilità;

espressione di sé e insieme studiato, pianificato pervertimento di ogni autenticità, l’universo delle lettere disegnato dal grande autore francese in questo lavoro somiglia a un’arena di gladiatori, a un teatro di guerra, a una rappresentazione dell’assurdo dove tutto è in potenza identico al suo opposto, dove il senso e la ragione, burattini in bilico sull’orlo di un precipizio, possono dissolversi o germogliare, moltiplicarsi, splendere.

La prosa di Boris Vian, esplosiva, immaginifica, visionaria eppure ancorata alle cose, alla terra, alla concretezza dell’esistere con un’urgenza quasi documentaristica, nell’arrembante e tragica amarezza di Sputerò sulle vostre tombe sembra volersi misurare con i concetti (tanto affascinanti quanto pericolosi) di onnipotenza e universalità: può, domanda Vian, un libro, un romanzo, affermarsi e negarsi? Incarnare la propria natura nel momento stesso in cui la rifiuta, le volta le spalle? A cominciare dal nome dell’autore, infatti, Sputerò sulle vostre tombe – pubblicato nel 1946 e firmato con lo pseudonimo “americano” di Vernon Sullivan, che Vian userà per altre tre opere – alterna la seduzione estetica e intellettuale della menzogna, dell’artificio, alla cristallina trasparenza di una narrazione piena, trascinante, mozzafiato.

E Vernon Sullivan-Boris Vian dà prova del proprio magistrale talento narrativo proprio quando – raccontando l’oscura, maledetta storia del “negro dalla pelle bianca” Lee Anderson, consumato da un unico, ossessivo pensiero, vendicare l’ingiusta morte del fratello, crudelmente assassinato da un gruppo di bianchi – decide di costruire un “falso”, un’imitazione, una copia dei crudi romanzi polizieschi d’oltreoceano che furoreggiavano tra i lettori del Vecchio Continente. Come definire, dunque, Sputerò sulle vostre tombe? Come inquadrarne la scrittura, così elettrica, lacerante, programmaticamente spavalda? E in che modo porsi di fronte all’intreccio, che inesorabilmente scivola nel cupo, furente abisso del cuore ferito di Anderson per poi articolarsi nella febbrile, allucinata pianificazione della sua rivalsa dispensatrice d’umiliazione e morte e infine esplodere, liberatorio e compiaciuto, nell’esibizione della terrificante irrimediabilità del fatto compiuto?

Domande cui non è agevole rispondere e che tuttavia è il romanzo stesso a sollecitare, e non per qualche intrinseco difetto di struttura, bensì per la sua stupefacente ricchezza stilistica e per la radicalità dei temi affrontati; in una parola, ci si ritrova costretti a chiedersi dove realmente sia, esista (abbia dimora e dignità letteraria) il romanzo di Boris Vian – se nel suo essere una storia scritta (non importa quanto magistralmente, con quanta attenzione alle atmosfere e allandamento della storia, costantemente interrotto, come il respiro mozzo di un uomo braccato, da frasi brevi, incisive, nette) a uso e consumo di un pubblico innamorato di prodotti talmente semplici ed elementari da non meritare il nome di letteratura, o viceversa nella sua compiuta maturità narrativa, nel distinguersi, al pari degli altri romanzi di Vian, come l’opera di un grande, magnifico scrittore – perché Sputerò sulle vostre tombe convince, conquista ed entusiasma tanto come esperimento, come azzardo, quanto come ennesima dimostrazione di una inimitabile capacità di raccontare.

In nulla diverso da Boris Vian, Veron Sullivan sceglie di scandalizzare, provocare, sconvolgere, superare ogni limite, ma al termine del suo percorso, alla fine del più tortuoso dei cammini, quel che egli abbraccia e consegna al lettore è ancora una volta una scintilla di bellezza. Qualcosa di cui essere grati e far tesoro.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Marcos Y Marcos editore, è di Stefano Del Re. Buona lettura.

Nessuno mi conosceva a Buckton. Clem aveva scelto la città per questo; e, d’altra parte, anche se avessi voluto cambiare idea non mi restava benzina sufficiente per risalire più a nord. Appena cinque litri. Un dollaro, e la lettera di Clem, era tutto quello che possedevo. La valigia, non ne parliamo neppure. Per quello che conteneva. Dimentico: avevo nel portabagagli il revolver del ragazzo, uno sparuto 6.35 a buon mercato; ce l’aveva ancora in tasca quando lo sceriffo era venuto a dirci di portarci a casa il cadavere per farlo seppellire. Devo dire che contavo più sulla lettera di Clem che su tutto il resto. Avrebbe dovuto funzionare, bisognava che funzionasse. Guardavo le mani sul volante, le dita, le unghie. Nessuno avrebbe trovato niente da ridire.

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