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Oltre l’ora più buia

Recensione di “Vecchi a mezzanotte” di Chaim Potok

Chaim Potok, Vecchi a mezzanotte, Garzanti
Chaim Potok, Vecchi a mezzanotte, Garzanti

Nel silenzio il dolore trova rifugio ma non dimora, così come nella rimozione, in un forzato oblio, può godere di una fragile quiete, ma non avere sollievo. È di parole che la sofferenza ha bisogno, è nel coraggio di esprimere di se stessa, di riconoscersi e di accettarsi la sua sola possibilità di catarsi.


Che sia la memoria dello sterminio nazista, eredità d’incubo di un ragazzo scampato (unico della sua famiglia) all’orrore di Auschwitz ed emigrato in America in cerca di una nuova vita, o il sordo rimorso di un ex ufficiale del Kgb, divenuto esperto torturatore d’uomini per lealtà verso il proprio Paese e l’utopia comunista, oppure ancora che siano gli anni bui e terribili del secondo conflitto mondiale, vissuti in giovanissima età da un celebre professore di storia ormai alle soglie della vecchiaia e poi dimenticati, cancellati quasi non fossero mai esistiti, le ferite dell’anima, private della voce, si fanno quotidiano tormento, ombre d’infelicità che stridono come il rimorso che non può non provare chi inspiegabilmente rimane vivo quando tutti gli altri attorno a lui, le persone che ama come quelle che non ha mai incontrato prima, muoiono ogni minuto di ogni giorno, e zoppicano come le squallide giustificazioni al riparo delle quali si guarda al proprio passato, alle nefandezze compiute, al male arrecato nella speranza che quelle menzogne pallide bastino ad assolverci, e incespicano negli angoli più remoti della memoria, prigioniere della paura, della colpa, di lacrime non ancora piante. Finché qualcosa interviene e apre loro la strada verso la coscienza; un incontro, una persona, un evento che a prima vista sembra quasi privo di significato.

È al crocevia di tre destini individuali che finiscono per intrecciarsi l’un l’altro per opera di una celebre scrittrice che Chaim Potok costruisce il suo Vecchi a mezzanotte, emozionante “romanzo fatto di storie” che esplora con commossa partecipazione temi fondamentali come il ricordo, la responsabilità personale, la fatica di vivere.

Figura principale del suo lavoro (al tempo stesso Deus ex machina della narrazione e attrice tra gli altri dei drammi raccontati) è Davita Dinn, che il lettore incontra studentessa al principio del libro e poi ritrova affermata autrice di lungo corso; è dinanzi a lei che incubi che non le appartengono e che pure in qualche misura riesce a sentire come propri prendono forma, acquistano una sostanziale coerenza, divengono trama, percorso, insieme di tracce che è possibile seguire. Quasi fossero sacrifici offerti a una benevola divinità, i più inconfessabili segreti delle persone che hanno a che fare con Davita riemergono al presente con sconvolgente urgenza; con la sua semplice disponibilità all’ascolto, infatti, questa donna semplice eppure enigmatica sembra voler offrire ai suoi interlocutori il più prezioso dei doni: la consapevolezza del legame indissolubile che unisce vita e memoria.

Ecco allora che il traumatico ritorno al passato delle tre persone che decidono di raccontare se stessi a Davita, diviene, nella prosa salda e sincera di Chaim Potok, una sorta di nuova nascita; nel realizzarsi dell’umanissimo miracolo della “seconda possibilità”, nel superamento della “mezzanotte della vita” (al di là della quale le tenebre cominciano a lasciare spazio alla luce), Noah e i suoi anni chiusi in un campo di concentramento, il colonnello Shertov e i collaudati metodi di coercizione fisica e psicologica messi al servizio del terrore staliniano e il professor Walter, il cui presente si regge su una radicale cancellazione di quella che con ogni probabilità è la parte più autentica di sé, vengono a patti con tutto ciò che sono stati, con le loro responsabilità, con gli errori commessi, ma anche (è il caso dell’innocente Noah) con l’imprevedibile ferocia del mondo, con quel caos di sopraffazione e morte che per molti è la negazione assoluta di Dio (di qualsiasi Dio) e per altri soltanto il segno (uno dei segni) della sua misteriosa volontà.

Pur senza eguagliare la maestria stilistica, lo splendore della prosa e la profonda capacità d’analisi critica della cultura ebraica (della sua eccezionale ricchezza e dei suoi limiti) che caratterizzano veri e propri capolavori quali Danny l’eletto, Il mio nome è Asher Lev e In principio, tutti recensiti in questo blog, Vecchi a mezzanotte è un romanzo che merita di essere letto; nelle sue dense pagine, nel tono sommesso che lo scrittore americano sceglie quasi a voler sottolineare il suo pudore di raccontare e il rispetto per il dolore rappresentato, è riassunto il Novecento, “secolo d’abissi” che ha visto succedersi due conflitti mondiali, il delirante disegno d’annientamento hitleriano e la folle e sanguinosa dittatura di Stalin.

Tutte queste tragedie Potok le racconta senza nasconderci nulla, soffrendo insieme a noi per quanto accaduto e tuttavia rifiutandosi di pronunciare, nei confronti dell’uomo, una condanna senza appello. Ostinato come i suoi protagonisti, egli, nel restituirci il passato, non smette di guardare al futuro.

Eccovi l’inizio del romanzo. La traduzione, per Garzanti, è di Mara Muzzarelli. Buona lettura.

Furono la zia e lo zio a condurre Noah nel mio quartiere di Brooklyn, e un annuncio appeso a una bacheca nella nostra sinagoga lo fece entrare nella mia vita: PROFUGO EUROPEO SEDICENNE CERCA INSEGNANTE DI INGLESE. Era l’inizio dell’estate del 1947, due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nessun nome, solo un numero telefonico. Chiamai quella sera stessa. Mi rispose una donna. «Pronto, chi parla?». Aveva un tono nervoso, seccato. «Chi è al telefono, prego?». «Buona settimana», dissi in yiddish. Una breve pausa. «Ah, buona settimana», disse. Il tono si era addolcito. «Mi chiamo Davita Dinn. Telefono per le lezioni di inglese», dissi in inglese.

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