Recensione de “Il Castello” di Franz Kafka
Che sia l’identità la nostra più grande fragilità? Che sia proprio quell’assoluto bisogno di essere riconosciuti (e dunque in qualche misura accettati) per quel che si è, quell’urgenza che pretende venga colto (e accolto) tutto quanto contribuisce, per quanto impercettibilmente, a distinguerci da ogni altro, l’origine della nostra debolezza? Che sia quel che ci fa unici a condannarci?
Nel tragicomico paradosso della scelta del nome (che dovrebbe decidere di un intero destino), carica d’aspettative, speranze e desideri al pari di una preghiera, o di un’implorazione; nell’arduo percorso di ricerca di un talento, di una vocazione, di una qualche predisposizione che troppo spesso si conclude nel vicolo cieco di una professione anonima; perfino nell’estatica esaltazione dell’amore, che nasce come respiro angelico d’affinità elettive per poi ingrigire in abitudine e sordo rancore, l’orgogliosa rivendicazione di sé sembra sempre scivolare lungo il piano inclinato del fallimento.
Ed è esattamente nell’incubo del lento spegnersi di un’identità, nel gelido abbraccio di una generale indifferenza che è, volta a volta, travestimento dei più meschini e miseri moti dell’animo umano, che Franz Kafka getta, con la medesima, traumatica violenza con la quale il corpo nudo e indifeso di un neonato viene esposto al mondo, l’agrimensore K., protagonista de Il Castello, grottesco romanzo-fiaba scritto negli ultimi anni di vita e pubblicato, incompleto, nel 1926, due anni dopo la scomparsa del grande autore cecoslovacco. Proprio come già accaduto ne Il processo (di cui ho scritto qui), Kafka nel decidere il nome (che poi non è altro che un’iniziale, la stessa del cognome che porta) del suo personaggio non intende richiamare l’attenzione del lettore su aspetti autobiografici rintracciabili tra le pagine dell’opera, quanto piuttosto assumere su di sé, in una sorta di essenziale condivisione, tutto ciò che accade all’uomo, e in tal modo annullare qualsiasi scarto tra “finzione letteraria” e vita vissuta.
La dimensione allucinata, folle, iperrealista nella quale egli cala il racconto, il suo narrare enigmatico, illogico, illusorio – “La strada […] principale del villaggio non conduceva alla collina del Castello, ma solo nelle vicinanze; poi però, quasi di proposito, deviava e, sebbene non si allontanasse dal Castello, non ci si avvicinava neppure” – sono espressione (l’unica possibile) del reale; quel che nella pagina si percepisce come studiata esagerazione, come particolare cifra stilistica, è specchio fedele di una quotidianità opprimente; l’immaginazione e il fantastico, in Kafka, non si applicano al presente, non sono strumenti di un’allegoria, accade invece che siano, ed è forse questo ciò che maggiormente sconvolge nei suoi lavori, limpide visioni del futuro, terrificanti epifanie di quel che sarà.
Così, nell’inquietante, marziale organizzazione burocratica del villaggio ai piedi del Castello (nonché del Castello stesso) nel quale si ritrova K., giunto lì per svolgere il suo lavoro di agrimensore, nelle disavventure cui va incontro, nell’ottusa arroganza dei funzionari con cui ha a che fare e nella degradazione che sperimenta in ogni dove e che sembra essere il solo patrimonio comune dei “cittadini” (ma ben più corretto sarebbe chiamarli sudditi) del luogo non si può non vedere l’architettura degli stati totalitari che, a partire dagli Anni 30 del Novecento in Europa e nel resto del mondo, si sono resi responsabili di ogni sorta di atrocità.
Scrive a questo proposito Italo Alighiero Chiusano nella prefazione all’edizione del romanzo edita da Newton Compton (traduzione di Giuseppe Porzi): “Sui risvolti politici in Kafka si è scritto all’infinito. Rovinoso ogni tentativo di ancorare lo scrittore a un preciso credo politico-sociale: contro l’impero asburgico, contro il capitalismo, a favore del sionismo […]. Detto questo, e ammesso che nei racconti di Kafka, Castello compreso, par di leggere le cronache prefigurate dello Stato nazista o quelle, allora poco conosciute, dello Stato leninista-staliniano già in atto o in «allestimento», va comunque precisato che Kafka, con tutto ciò, resta un profeta della solitudine, dell’io sradicato e disorientato, dell’uomo alle prese con se stesso, più che coi propri simili aggregati in grandi categorie”.
È dunque nell’eco distorta di un’atemporalità sottile e velenosa, capace di colorare anche il presente con quella particolare paura dell’ignoto che siamo soliti considerare come appartenente soltanto al domani e alla sua inconoscibilità, che descrizione e profezia trovano il loro punto d’incontro; ed è qui, a questo crocevia, che la vita, l’individuale come la sociale, si arrende a se stessa.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Era tarda sera, quando K. arrivò. Il villaggio era immerso in una spessa coltre di neve. Non si riusciva a vedere la collina, nebbia e oscurità la circondavano, neanche il più debole bagliore di luce indicava il grande Castello. K. rimase a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al villaggio, e guardò su, nel vuoto apparente.