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Nella notte

Recensione de “I figli delle tenebre” di Anne-Marie Garat

Anne-Marie Garat, I figli delle tenebre, Il Saggiatore
Anne-Marie Garat, I figli delle tenebre, Il Saggiatore, 816 pagine

Sono ovunque le tenebre al principio degli Anni Trenta in Europa. E tutti ne sono figli, non importa quanto consapevolmente. Sono le tenebre del caos politico e sociale, è l’oscurità morale terribile di un continente che, ancora non del tutto ripresosi dalla catastrofe della Grande Guerra, corre a perdifiato verso un nuovo e più terribile conflitto, è la notte della miseria trionfante, che morde intere generazioni, che, come un maligno incantesimo, trasforma gli uomini in mendicanti, derubandoli della dignità, del rispetto di sé, è il cieco divampare della rabbia dei popoli, delle genti, è la loro cruda fame di rivalsa che a gran voce reclama l’annientamento di tutti i nemici, degli avversari reali e ancor più di quelli immaginari, dei fantasmi evocati da folli parole d’ordine, dalle lucenti promesse di un pazzo idolatrato come un dio.

La tenebra è ovunque in questa Europa confusa e tremante, impegnata in una tragica partita a scacchi con la morte; con identica, terrificante naturalezza, abita i destini dei singoli e delle nazioni, silenziosa osserva il proprio impero crescere, espandersi, fagocitare senza sosta sempre nuovi territori. All’interno dei suoi confini, imprecisi, mutevoli, cangianti come le sfumature di colore di un tramonto, si muovono gli uomini del sottosuolo, incarnazioni grottesche di un male indicibile, vittime di un letale veleno che pur senza uccidere impedisce di vivere, fiacca e sfinisce i corpi e piega le anime, soffoca gli spiriti, costringe alla resa; uomini come Parche, curvi sui propri giorni e su quelli dei loro simili, impegnati a tessere e distruggere fili, trame, arazzi; giocatori d’azzardo pronti a puntare tutto sulla benevolenza del caso, su un piano studiato fin nei minimi dettagli che un semplice alito di vento può tramutare nel più atroce dei fallimenti.

Ed è di questi uomini, nonché del fiammeggiante scenario nel quale si trovano ad agire, che racconta, con prosa elegantissima e tumultuosa, Anne-Marie Garat nel suo I figli delle tenebre, romanzo tanto ambizioso quanto coinvolgente, retto da una scrittura di rara potenza, febbrile e forsennata nel ritmo, attraversata da una sorta di ossessione, dal bruciante desiderio di non tralasciare nulla, di non farsi sopraffare dagli eventi che descrive, di essere, a tutti gli effetti, creatrice di quel che evoca, demiurgo e non semplice voce narrante, protagonista e non soltanto testimone; in una parola, di dare vita alla realtà attraverso la scrittura.

Così, lo splendido, travolgente lavoro della scrittrice francese, che la ricchezza spesso eccessiva dello stile, la sovrabbondanza descrittiva tenacemente perseguita e la maniacale cura del dettaglio rischiano in più di un’occasione di soffocare, trascende se stesso e il suo essere, nello stesso momento, romanzo storico, avventuroso intreccio spionistico, storia d’amore, puntuale ricostruzione di una drammatica stagione del nostro passato prossimo e pura, libera invenzione letteraria.

In un moto incessante dal grande al piccolo, in un narrare incalzante dove scintillano letteratura e arte – l’incipit, indimenticabile, del romanzo è dedicato a Virginia Woolf, benignamente “spiata” da una sua lettrice e colta sul portone della Hogarth Press un istante prima di uscire per una breve passeggiata – Garat racconta la Germania prossima a sprofondare nell’incubo nazista (e il resto dell’Europa, colpevole di pavidità e connivenza, pronta a seguirla nel baratro del secondo conflitto mondiale) attraverso le vite dei suoi protagonisti, la giovane e irrequieta Camille, ricchissima grazie alla fortuna di un’industria dolciaria fondata generazioni prima ma del tutto indifferente nei confronti della propria fortuna, la timida libraia Elise, che saprà giocare un ruolo di fondamentale importanza nella sfida tra Germania e Francia, impegnate a combattersi in una battaglia senza esclusione di colpi giocata dai rispettivi segreti segreti, Simon Lewenthal, potente direttore della fabbrica retta dalla nonna di Camille, ebreo ricco e soddisfatto di sé che tuttavia non ignora quel che alle persone come lui, della sua razza, del suo sangue, riserva il nuovo potere ariano sorto a Berlino, Etienne Louvain, spia esperta, la cui straordinaria capacità di inganno, dissimulazione e doppio gioco non è che reazione a un dolore patito in giovane età e che nulla potrà lenire. Con stupefacente maestria, Anne-Marie Garat mescola le vite di ciascuno con quelle di tutti, crea legami che riflettono quelli nei quali è imbrigliato il continente; relazioni torbide dove la sincerità appassisce e muore per mancanza di luce e aria, rapporti di forza che si nutrono di silenzi, di ricatti, offerte e rilanci, dove ciascuno è di volta in volta prigioniero e carceriere, vittima e aguzzino, e dove l’amore è soltanto lo stanco sorriso che attraversa il volto devastato dei pochi, pochissimi sopravvissuti.

Eccovi l’incipit, la traduzione è di Massimo Fumagalli. Buona lettura.

Virginia Woolf uscì alle cinque. All’improvviso, l’acquazzone cessò. Neanche più una goccia, davvero, come per intervento divino; così stupefacente, così incantevole che a Elise venne spontaneo un atto di ringraziamento.

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