Recensione di “La svastica sul sole” di Philip K. Dick
Philip Dick aveva solo dodici anni quando, nel 1942, uscì nei cinema americani Prelude to War, la prima puntata della serie di documentari di propaganda bellica Why We Fight. Produttore della serie era il grande regista Frank Capra, che ne diresse personalmente la maggior parte. In quel periodo, Dick viveva a Berkeley, in California, e fu testimone del clima d’isteria collettiva che si diffuse nello Stato dopo Pearl Harbor […]. Non è certo se Dick avesse in mente il film di Capra quando concepì L’uomo nell’alto castello [titolo originale del romanzo poi diventato La svastica sul sole], ma la sua esperienza degli anni di guerra senza dubbio gli tornò utile.
E l’ipotizzare una sconfitta degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale gli apparve perversamente suggestivo […]. Dick […] non ha l’ambizione di dare al lettore un quadro onnicomprensivo di un mondo ucronico dominato dai nazisti e dai loro alleati giapponesi. I riferimenti storici naturalmente esistono, ma non sono la parte centrale del romanzo, e servono per lo più come spunti […]. Nel mondo immaginato da Dick, gli Stati Uniti sono dunque una colonia, divisi tra Giappone e Germania nazista e ridotti a una sorta di terzo mondo […]. Ma anche in un mondo capovolto è difficile accettare l’idea di un’America sconfitta. Così per molti patrioti l’unico rifugio diventa la lettura del libro semiclandestino La cavalletta non si alzerà più, che racconta una storia diversa nella quale gli Alleati trionfano sui loro nemici. Alla fine ci si trova in un gioco di specchi. Il mondo immaginario descritto ne La cavalletta non si alzerà più è quello reale. Germania e Giappone hanno perso la guerra”.
Nella postfazione, scritta da Luigi Bruti Liberati, all’edizione italiana de La svastica sul sole di Philip K. Dick edita da Fanucci (traduzione di Maurizio Nati, nota introduttiva a cura di Carlo Pagetti), quel che si sottolinea con maggior forza è il carattere sfuggente dell’opera, il suo appartenere a un ben preciso genere letterario ignorandone regole e canoni. Dick riscrive la storia, eppure sembra non volersi assumere la responsabilità di ciò che ha fatto; disegna un mondo nuovo, in massima parte d’incubo, ma nonostante ciò non si cura di spiegarlo, di darne ragione.
Al lettore presenta semplicemente il fatto compiuto; i vincitori e i vinti di un conflitto mondiale, che non sono quelli che la storia ci ha consegnato. Il resto non è che una meccanica conseguenza di quel che è accaduto, qualcosa su cui non vale la pena soffermarsi. Ecco dunque che l’ucronia, o se preferite l’utopia negativa, che negli anni della guerra al nazismo è stata uno scenario possibile (o meglio, il peggiore degli scenari possibili) a un passo dal divenire realtà, fin dalle primissime pagine del romanzo si dissolve; lo sguardo di Dick non abbraccia, come ci si aspetterebbe, il destino delle nazioni, non si sofferma sugli equilibri del mondo (anche se sarà proprio la fragilità di questi equilibri uno dei temi centrali della narrazione); sceglie invece di osservare ogni cosa dal basso, facendo sue prospettive singole, incarnando il mondo alla rovescia cui ha dato vita nella quotidianità grigia di un pugno di personaggi.
È dalle loro vite, quasi fossero tessere un puzzle, o angoli illuminati di un mosaico in gran parte lasciato nell’oscurità, che il lettore ricostruisce il passato; quel che è successo emerge come un faticoso ricordo dalle esistenze e dalle professioni dei protagonisti del romanzo (Robert Childan, un mercante d’arte specializzato in manufatti americani, che i giapponesi conquistatori amano collezionare, Frank Frink, un orafo ebreo miracolosamente sfuggito allo sterminio nazista e la sua ex moglie Juliana, insegnante d’arti marziali, Nobosuke Tagomi, un importante funzionario commerciale, Joe Cinnadella, un sicario del Reich, e infine l’enigmatico Baynes, forse un tedesco, forse una spia di un’altra nazionalità, forse un traditore del Reich, forse uno di coloro che cercano in ogni modo di salvare la Germania da se stessa), le cui esistenze stillano rassegnazione, sconfitta.
Il predominio della forza, e la conseguente eclissi della ragione, che il vasto e profondo respiro narrativo dello scrittore americano traduce in pagine cupe, dove a risaltare è una polverosa miseria etica, una deriva che nulla può nascondere, sono il riflesso di civiltà al tramonto, dell’aprirsi di un abisso pronto a inghiottire i vinti come i vincitori, ad annientare popoli interi, la cui autonomia di pensiero e d’azione è stata presa in ostaggio dalle sentenze di un libro d’oracoli.
L’Apocalisse di Dick, dunque, un abbozzo d’orizzonte che si intravede alle spalle di un primo piano e nello stesso tempo è una verità così presente, così incombente da togliere il fiato; una verità che soltanto qualcosa di uguale e contrario può combattere: una realtà alternativa descritta in un libro intitolato La cavalletta non si alzerà più, un romanzo pericolosissimo, proibito in tutti i territori sotto il dominio diretto del Reich millenario ma letto, e amato, e studiato, e interpretato in tutto il resto del mondo. Un libro che dice che a vincere la guerra sono stati americani e inglesi, e che tutto ciò che appare reale non è che illusione. E se le cose fossero davvero andare così? Saremmo salvi? Davvero ogni cosa sarebbe a posto?
La svastica sul sole a queste domande non risponde perché il compito che si è assunto Philip K. Dick è soltanto quello di porle. Ai suoi lettori, che sono i lettori de La cavalletta non si alzerà più, che sanno come si sia conclusa la guerra, che conoscono il mondo che i personaggi del romanzo possono soltanto sognare, o immaginare leggendo un testo proibito, egli chiede di riflettere. Il mondo ha evitato una catastrofe (il romanzo di Dick è stato pubblicato nel 1962, è bene non dimenticarlo), ma se ne è reso conto? E se lo ha fatto, se ha compreso quale mortale pericolo sia stato scongiurato, ha preso la direzione migliore? La più giusta?
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Da una settimana il signor R. Childan teneva d’occhio ansiosamente la posta. Ma il prezioso pacchetto inviato dagli Stati delle Montagne Rocciose non era ancora arrivato. Il venerdì mattina, quando aprì il negozio e vide sul pavimento solo lettere pensò: il mio cliente si infurierà.
Philip Dick è davvero un grande e la tua lettura mi è piaciuta molto, complimenti.
Ti ringrazio. Spero vorrai continuare a seguire il blog. Un caro saluto
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.