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L’inafferrabile scrivere

Recensione de “L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert

Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, Garzanti

“Una voce apocrifa del flaubertiano Dictionnaire des idées réçues potrebbe definire Flaubert con queste parole: «In lui coesistevano un romantico che trovava banale la realtà, e un realista che trovava vuoto il romanticismo, e un artista che trovava grottesco il borghese e un borghese che trovava pretenziosi gli artisti; il tutto nella prospettiva di un misantropo che trovava tutti ridicoli». Questa definizione, certo arguta, appartiene in realtà a Emile Faguet, eminente rappresentante della storiografia letteraria francese alla fine del XIX secolo, e costituisce una simpatica dichiarazione d’impotenza: Flaubert è irriducibile alle grandi classificazioni della letteratura”.

Così, nell’introduzione a L’educazione sentimentale pubblicata da Garzanti nella traduzione di Giovanni Raboni, Lanfranco Binni presenta al lettore Gustave Flaubert; facendo sua una “dichiarazione d’impotenza”. Gustave Flaubert è uno scrittore che non si lascia inquadrare, capace allo stesso tempo di essere espressione (ed espressione sublime) delle correnti letterarie del suo tempo e di procedere lontanissimo da esse, lungo una traiettoria eccentrica che obbedisce unicamente alla sua personale forza creatrice, agli sconvolgimenti di un’intuizione, al bisogno insopprimibile di raccontare il mondo e le sue miserie, di smascherarlo abbandonandosi all’onnipotenza dell’arte, “consapevolezza estrema della totalità dell’universo […], grande sintesi del tutto”.

Da questo punto di vista, dunque, da questa sorta di assolutezza, di eternità, è necessario guardare al grande autore francese; è d’obbligo, per provare a comprenderlo, a decifrarlo, prendere le mosse dalla vertigine del vero e del bello, dal canone classico dell’armonia, e da lì muovere – attraverso le scelte stilistiche, la cura della prosa, il formarsi stesso dei suoni, che mutano in parole e nel moltiplicarsi lungo le pagine danno vita a uomini, cose, sentimenti e finanche alla storia, al nascere al morire dei grandi eventi – fino alle vicende più minute, a quel che accade lungo le strade e alla fioca luce delle stanze, a quel che ci si sussurra a fil di voce e a ciò che a squarciagola si proclama dinanzi a tumultuose assemblee. Ed ecco che da una visione d’insieme, che è tanto approccio metodologico quanto irriducibile sensibilità d’autore e d’uomo, prendono lentamente forma, come immagini impresse su una pellicola fotografica, le storie degli uomini e delle donne; l’amore appassionato e infelice, ne L’educazione sentimentale, del giovane Frédéric Moreau per la moglie di un sedicente uomo d’affari che in realtà è poco più di un imbroglione da due soldi fin troppo innamorato della bella vita e delle donne; il patetico brulicare di vita del mondo borghese, che in egual misura appartiene all’eroe-antieroe del romanzo e a tutti coloro che lo circondano – il vecchio amico Deslauriers, il pittore del tutto privo di talento Pellerin, il ricchissimo banchiere Dambreuse e la moglie, che Frédéric, nel moltiplicarsi dei suoi insuccessi amorosi e nel profilarsi, sempre più netto, del suo fallimento esistenziale, proverà, più per noia che per autentico trasporto, a conquistare, l’allegra, al punto da essere sconveniente, Rosanette, amante di tutti e di nessuno, e la sua amica-nemica, l’ombrosa calcolatrice Vatnaz, al corrente di troppi segreti – e a stretto contatto con esso eppure ignorato, il trascinarsi esausto del popolo, consumato dall’impotenza, da una rabbia sorda, da un cieco recriminare.

E mentre ognuno, al riparo delle proprie meschine viltà, rincorre desideri di poco momento, soddisfazioni destinate a svanire nel momento stesso in cui si fanno realtà, la storia fa il suo corso; la penna di Flaubert allora abbandona di colpo ogni umoristico ricamo, ogni ricercatezza formale e torna a farsi ancella della parola, della sua potenza espressiva, del suo rigore, così da restituire, nella sua verità, la sostanza di quel che è stato, nel bene come nel male; nelle illusorie speranze che hanno alimentato i moti del 1848 e nel loro triste naufragio, nel lento ritornare, dal mare aperto dei sogni (appena intravisto), all’approdo dell’infelicità, del dolore, della sconfitta, dove l’unica compagnia che tocca ai vivi è quella, amara, del rimpianto.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il Ville-de-Monterreau, sul punto di partire, lanciava grosse spire di fumo davanti al quai Saint-Bernard.

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