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Il mito sanguinoso della Frontiera

Recensione di “Meridiano di sangue” di Cormac McCarthy

Cormac McCarthy, Meridiano di sangue, Einaudi

Cormac McCarthy racconta di un tempo che sembra appartenere all’infanzia del mondo, e di luoghi che conservano una sorta di letale purezza, quasi fossero angoli d’Eden precipitati nel fango a causa del peccato dell’uomo. La realtà narrata dallo scrittore americano, dalla sua prosa forte, aspra, che attanaglia le viscere, colma il cuore d’emozione e gli occhi di pianto, conserva un’anima primitiva, incorrotta, solenne e selvaggia, allo stesso tempo splendida e abietta.


E colui che abita questa realtà ne è in qualche modo l’espressione, il riverbero; è un uomo vestito soltanto dei propri istinti, obbediente agli appetiti del corpo, che lotta per non soccombere all’arbitrio onnipresente della forza, non conosce fratellanza e tuttavia non è sordo all’amore. È nel West immenso e inconoscibile, nell’eterno silenzio di praterie e deserti, che McCarthy situa geograficamente questo suo “mondo dell’essenza”, frutto della folle unione carnale tra Bene e Male; qui, in questa terra dura e inospitale, uomini e donne giorno dopo giorno battezzano se stessi nel dolore e nella violenza, dispersi in un insensato girotondo d’odio e di morte. Uomini fragili, incompiuti al pari di statue appena abbozzate, come il ragazzo di quattordici anni protagonista dell’intenso e lacerante Meridiano di sangue; un giovane nato in una notte diversa da tutte le altre, forse magica, forse maledetta – “La notte in cui sei nato. Trentatré. Leonidi le chiamavano. Dio, come cadevano le stelle. Con lo sguardo cercavo il buio, buchi nel cielo. L’Orsa correva” – orfano di madre (morta di parto) fin dal primo vagito, che appena può fugge di casa e si unisce a una banda di cacciatori di scalpi, uno spietato manipolo di assassini capitanati dal giudice Holden, quasi un demone d’inferno in forma d’uomo, o la caricatura d’incubo di un dio, giunto in terra a giudicare, e condannare.

Completamente calvo, imberbe, senza sopracciglia né ciglia e alto più di due metri, Holden è una maschera di vendetta, l’incarnazione di un’oscurità trascendente e inarrestabile; attraverso le sue sentenze che non ammettono appello, nel racconto puntuale, straziante ed epico delle stragi di cui si macchia, il grande scrittore americano dà voce a un’umanità condannata, orfana di pietà (della capacità stessa di provarla), che trascina se stessa lungo un piatto orizzonte fatto solo di stentata sopravvivenza. E intorno a questa umanità derelitta sorge l’immensità della natura, uno spazio dilatato a dismisura, paradiso perduto di grazia e bellezza, ergastolo dei vivi. McCarthy la disegna con tratto magistrale, con una scrittura odorosa di terra, ubriaca d’infinito: “Cavalcarono e cavalcarono, a est il sole accese pallide strisce di luce, poi una colata più marcata di un colore come di sangue che mandò verso l’alto raggi improvvisi allargandosi sulla pianura, e là dove la terra defluiva nel cielo, ai margini del creato, il sole spuntò dal nulla come la testa di un grande fallo rosso fino a uscire completamente dal bordo invisibile per accovacciarsi alle loro spalle, pulsante e ostile. Sulla sabbia, le ombre delle pietre più piccole sembravano tratti di matita e le sagome degli uomini e dei cavalli si allungavano davanti come trefoli della notte da cui erano usciti, come tentacoli che li attiravano verso il buio di là da venire. Cavalcavano a testa bassa, il volto nascosto sotto il cappello, come un esercito di sonnambuli”.

Potente apologo sulla brutalità e l’insensatezza del mondo (per le quali sembra non esistere rimedio), Meridiano di sangue è un’opera perfetta e indimenticabile (e una meritoria menzione è d’obbligo per la magistrale traduzione di Raul Montanari); McCarthy popola la Frontiera e il suo mito di ombre e fantasmi; nel suo travolgente canto di desolazione persino l’onnipotenza della morte si riduce a semplice, volgare mercanzia: “Il cinque dicembre si avviarono verso nord nella fredda oscurità che precedeva l’alba, portando con sé un contratto per la fornitura di scalpi apache firmato dal governatore dello stato della Sonora”. Eppure negli occhi ciechi di Dio ancora abita un domani, un equilibrio possibile da inseguire e da raggiungere, cavalcando instancabili un sogno, in quell’ora eterna, sospesa tra buio e luce, che separa il giorno dalla notte.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Eccolo, il ragazzino. È pallido e magro, indossa una camicia di lino lisa e sbrindellata. Attizza il fuoco nel retrocucina. Fuori si stendono campi arati, scuri e cosparsi di chiazze di neve, e poi boschi più scuri che celano ancora i pochi lupi rimasti. I suoi sono noti come taglialegna e venditori d’acqua, ma in realtà suo padre era maestro di scuola. Sdraiato, ubriaco, cita versi di poeti i cui nomi sono ormai andati perduti. Il ragazzo si rannicchia accanto al fuoco e lo guarda.

2 commenti su “Il mito sanguinoso della Frontiera”

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