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Il buco del culo del diavolo

Recensione di “I turbamenti del giovane Törless” di Robert Musil

Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless, Einaudi

Romanzo di chiara impronta autobiografica, I turbamenti del giovane Törless di Robert Musil è un vertiginoso viaggio nell’oscurità dell’uomo, uno sguardo gettato nel caotico baratro delle sue pulsioni, dei suoi istinti, delle sue brame, della sua primordiale violenza. In quest’opera, scritta all’età di 25 anni, il futuro autore di uno dei più grandi capolavori letterari del Novecento, L’uomo senza qualità, rievoca, con impressionante lucidità, l’esperienza più drammatica della sua vita, gli anni di gioventù trascorsi, per volontà del padre, all’Accademia Militare di Mährish-Weisskirchen, da lui spregiativamente qualificata come “il buco del culo del diavolo”, ma dalla quale malgrado tutto riuscì a uscire cadetto.

Irrinunciabile pilastro del sistema educativo (e della conseguente organizzazione sociale) dell’impero austro-ungarico, collegi e accademie militari erano i luoghi d’elezione nei quali venivano forgiate, secondo un rigido schema che subordinava l’insegnamento vero e proprio all’applicazione ferrea della disciplina e all’educazione alla supina obbedienza verso l’autorità, le nuove classi dirigenti della monarchia e nello stesso tempo ne rappresentavano l’eccellenza, ne riflettevano la grandezza.

Nell’ambientare la sua opera in una di queste istituzioni – rappresentata più come una sorta di sfondo, di quinta teatrale, che come realtà vera e propria, ma percepita da tutti protagonisti della vicenda narrata come un’intollerabile prigione, un’anonima trappola per topi appositamente studiata per annientare le loro energie migliori, fisiche e spirituali, per estinguerne ogni esuberanza di vita – Musil sottopone a critica radicale quello che era forse il maggior vanto dell’impero, la risorsa su cui faceva più affidamento. Lo fa senza alcuna volontà di rivalsa, senza rabbia (che pure sarebbe stata comprensibile, ancorché scontata), con la sistematicità di un logico: Musil ha vissuto, anzi subito, il collegio, ne ha toccato con mano l’inconsistenza, l’impalpabilità formativa, ha sopportato le mortificazioni imposte dal rigoroso codice di comportamento in uso, e quando ha trovato la forza di trasformare tutto questo in materia letteraria, ha semplicemente cambiato nome all’Accademia di Mährish-Weisskirchen facendone un collegio. Non c’è stato bisogno d’altro, dal momento che la desolazione dei suoi ambienti, l’imbarazzante impreparazione del corpo docente e la manifesta povertà morale e intellettuale che caratterizza quel luogo altro non sono se non il vivo ricordo dell’autore, la sua verità.

Discorso diverso, invece, va fatto per i protagonisti del romanzo, Törless prima di tutto, poi i suoi due amici Reiting e Beineberg (dalle chiare tendenze sadiche), e infine il ragazzo che diviene bersaglio della loro crudeltà e delle loro perversioni (comprese quelle sessuali), Basini. Perché se è senz’altro vero che anche in questo caso Musil attinge alle proprie esperienze giovanili, è altrettanto vero che nel seguire lo svilupparsi (via via più torbido e tragico) del rapporto tra questi quattro cadetti lo scrittore di Klagenfurt si spinge ben oltre se stesso e si avventura nel territorio sconfinato del romanzo psicologico. Dipinge persone che non sono ancora uomini attraverso il legame che più di ogni altro simboleggia gli anni di gioventù e la loro bellezza, l’amicizia, ma di questo cruciale passaggio sottolinea soltanto l’aspetto malato, vizioso; l’ascendente che Törless esercita sui suoi “compagni di torture” lo rende il loro capo indiscusso (e in questo caso l’amicizia trascolora in un meccanico rapporto di forza, riflesso neppure troppo velato di quello che vige in collegio), mentre il legame, squilibrato fin dall’inizio, tra loro tre e Basini assume via via i contorni della più odiosa e vile forma di sopraffazione che si conosca, quella del dominio del più forte sul più debole. È possibile, naturalmente, che l’irrefrenabile scatenarsi, in questi ragazzi, dei peggiori istinti – che peraltro albergano in ogni essere umano, ma che per fortuna la gran parte di noi sa come tenere sotto controllo – dipenda, almeno in parte, dal mortifero ambiente del collegio, che induce, pena la definitiva rinuncia a se stessi, allo sfogo, alla ribellione (l’autore in proposito si trincera dietro una studiata reticenza), ma questa interpretazione, quand’anche fosse vera, non modifica nella sostanza l’idea che dell’uomo ha Musil, una creatura sempre in bilico sull’orlo dell’abisso, che si può salvare, certo, ma che molto più spesso cade. Senza riuscire a rialzarsi.

Eccovi l’inizio del romanzo. Buona lettura.

Una piccola stazione lungo la linea per la Russia. Diritte e infinite quattro rotaie correvano parallele nelle due direzioni, tra la ghiaia gialla dell’ampia massicciata; accanto a ognuna, come un’ombra sudicia, la striscia di bruciato lasciata sul suolo dal vapore di scarico. Alle spalle del basso edificio della stazione, dipinto a olio, una strada larga e maltenuta conduceva al piano di carico. I margini di essa si perdevano nel terrano calpestato tutt’intorno, e si distinguevano ormai solo per due file di acacie che si ergevano tristi ai due lati, con le foglie assetate e strangolate dalla polvere e dalla fuliggine.

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