Recensione di “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes
Il nobiluomo Alonso Chisciano (a tutti noto come Don Chisciotte), divorato dall’amore per i romanzi cavallereschi al punto da divenire lui stesso protagonista delle avventure lette avidamente per anni, è forse il più puro degli eroi. Perché è la sua anima a essere eroica, ed è la sua sensibilità incorrotta e libera a guidarlo; a spingerlo, inizialmente, a vendere gran parte dei suoi possedimenti (e a investire in libri il ricavato dei suoi magri affari) e poi a trascinarlo con sé nel liquido abbraccio del sogno, della vita da sempre immaginata e desiderata.
Miguel de Cervantes, nel meraviglioso Don Chisciotte della Mancia, ritrae l’allampanato Alonso con viva partecipazione; la comunione con il suo personaggio (e attraverso lui del lettore con Chisciotte) è piena, limpida, autentica. Certo, il grande autore spagnolo non risparmia né sarcasmo né beffarda ironia; fin da subito taccia il protagonista del romanzo di pazzia e si diverte fargli vivere situazioni assurde, grottesche, umilianti perfino, dalle quali il cavalier Don Chisciotte esce immancabilmente malconcio. Ma il mondo, che in ogni momento sembra in grado di schiacciare l’ardimentoso Chisciotte e che alla visionaria ingenuità dei suoi occhi e della sua mente oppone, di volta in volta, squallore, miserie, meschinità, intrighi e raggiri di ogni genere, che sembra impastato soltanto di volgarità e ignoranza, per quanto non dia tregua a questo improbabile “guerriero cortese” non riesce comunque a fiaccare il suo spirito.
Poco importa che il suo elegante e potente destriero (Ronzinante! Riuscite a immaginare un nome più ridicolmente malinconico?) in realtà non sia che un cavalluccio smagrito e moribondo, che lo scudiero Sancio non condivida nulla dell’ideale di Chisciotte e, da rozzo popolano di buon ingegno, pensi soltanto al proprio interesse, che la dama cui il cavaliere decide di dedicare le sue imprese sia una semplice contadina – Aldonza Lorenzo, da lui trasformata nell’aerea Dulcinea del Toboso – greve nel corpo e ancor più nello spirito; Alonso Chisciano vive nella misura in cui vivono le sue commoventi fantasie, e non esiste forza in grado di cambiare questo stato di cose. Emblema di ogni uomo che non appartiene al proprio tempo, Don Chiscotte, e con lui il suo creatore, si nutre di un’idea, di una convinzione, non importa se fondata o meno, e dell’amore che prova per essa. Ed è questo a renderlo immortale.
Scrive acutamente Jorge Luis Borges nell’introduzione all’edizione italiana del romanzo pubblicata da Rizzoli (traduzione di Alfredo Giannini) che “così come sentiamo che Omero, o i greci che chiamiamo Omero, è dalla parte di Ettore e non di Achille, non c’è lettore sensibile che non sappia che Miguel de Cervantes è dalla parte dei sogni eroici e non della comune realtà”.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
In un borgo della Mancia, che non voglio ricordarmi come si chiama, viveva non è gran tempo un nobiluomo di quelli che hanno e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo, un magro ronzino e un levriere da caccia. Un piatto di qualcosa, più vacca che castrato, brincelli di carne in insalata, il più delle sere, frittata in zoccoli e zampetti il sabato, lenticchie il venerdì, un po’ di piccioncino per soprappiù la domenica, esaurivano i tre quanti dei suoi aver.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.