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Ciò che è (e non vediamo)

Recensione di “La mia lotta (1)” di Karl Ove Knausgard

recensione - karl ove knausgard - la mia lotta (1)
Karl Ove Knausgard, La mia lotta (1), Ponte alle Grazie

Tutto quello che abbiamo in ogni momento sotto gli occhi è esattamente ciò che non vediamo. Ed è la vita, quel che accade ogni giorno e che proprio per la sua ripetitività (che forse è solo apparente) scorre ignorata, ciò che non siamo in grado di osservare. E di conseguenza di comprendere, o semplicemente di analizzare. La nostra vita così come quella altrui.

Un susseguirsi di ore, giorni, settimane, mesi e anni vuoto di senso perché saturo di accadimenti che quasi sconcertano per banalità, per insignificanza. Un ripresentarsi quasi ossessivo delle medesime cose, replicate con impercettibili sfumature di differenza in tutte le case, in tutte le famiglie, in tutti i luoghi di lavoro. La vertigine del linguaggio, la sua irraggiungibile onnipotenza che naufraga nello sterile gioco di specchi di discorsi che non portano da nessuna parte, l’eccitazione della scoperta che in pochi istanti scolora in abitudine, la forza travolgente dei sentimenti che dapprima si raccoglie in una sorta di strana calma per poi inaridire nell’indifferenza, l’irrompere del sogno, che immancabilmente la realtà si incarica di espellere da sé come si fa con un ospite indesiderato e importuno: un rovesciarsi di illusioni, delusioni, tradimenti sottile come pioggia di primavera, che cade senza bagnare, senza lasciare traccia, senza farsi memoria. La vita non è che questo, l’ombra di un’impronta abbandonata sulla sabbia e subito cancellata dal vento, dalla ruvida carezza di un’onda. Perché dunque dovremmo ricordarla? Perché dovremmo accorgercene? Forse per il semplice fatto di viverla? Ma viverla non è che adattarsi alla sua insignificanza. Accettarla come un dato di fatto. Cosa rimane dunque? Quel che rimane, ci dice Karl Ove Knausgard ne La mia lotta, primo volume della sua voluminosa opera autobiografica (il romanzo in Italia è stato pubblicato da Ponte alle Grazie nella traduzione di Lisa Raspanti), è precisamente quel che non vediamo, quel che siamo senza neppure renderci conto di essere. 

Esploratore di se stesso e del mondo (o meglio dei mondi) che da lui hanno preso vita – quello della sua famiglia d’origine, della nuova famiglia che ha contribuito a creare, delle amicizie, delle parentesi di solitudine, dei successi, dei fallimenti, delle intenzioni mai trasformate in nulla di concreto, delle aspirazioni, delle paure – Knausgard affronta ogni minima cosa scommettendo, se non sulla sua intrinseca ricchezza, di certo su una sua particolare centralità. Il fatto che una certa situazione si dia, spiega lo scrittore norvegese, basta a se stesso, è sufficiente perché se ne possa fare materia narrativa; così, narrazione è il sistematico elenco delle azioni più ordinarie, a tal punto parte di ognuno di noi da essersi ridotte ad automatismi (la preparazione del caffè, del pranzo, la vestizione al mattino, le passeggiate) e allo stesso modo narrazione è riflettere sull’enormità dell’amore che un giorno all’improvviso sconvolge ogni equilibrio. E ancora narrazione è riflettere sull’onnipresenza della morte (semplice solo per il cuore, che altro non deve fare se non cessare le sue pulsazioni) e sull’indispensabilità dell’amicizia, che tuttavia sembra non poter crescere se non in terreni incolti e selvaggi disseminati di ipocrisie, menzogne, falsità, crudeltà inutili.

Non ha meta, né dichiarata né nascosta, la strada lungo la quale ha scelto di incamminarsi Karl Ove Knausgard, una strada che è un sentiero battuto così tante volte da aver perduto qualsiasi segno distintivo e un territorio vergine mai avvicinato prima; è possibile che non abbia meta perché la vita, qualsiasi cosa sia, è un cerchio perfetto dove fine e principio coincidono (e che di questo l’autore abbia piena consapevolezza, e sappia perciò perfettamente dove andare), ma potrebbe anche darsi che non l’abbia perché provare a parlare di ciò che si è inevitabilmente conduca chi lo fa a perdersi, a smarrire il senso dell’orientamento; in quest’ultimo caso tutto ciò che rimane da fare è proseguire, continuare a farlo finché ci saranno forze sufficienti. Non ha meta La mia lotta (titolo affascinante, che con un po’ più di coraggio si sarebbe potuto tradurre con l’indicibile La mia battaglia, frase che indicibile continuerà a rimanere finché non si riuscirà a strapparla ad Adolf Hitler, cosa che Karl Ove Knausgard ha meritoriamente fatto; un gran peccato non averlo seguito), probabilmente è per questo che dalle sue pagine si leva un irresistibile canto di sirena.

Eccovi l’incipit del romanzo, che in questa specifica traduzione pecca di errori grammaticali francamente inaccettabili (gettito d’acqua in luogo di getto ripetuto più volte, nonché un imbarazzante tu corsi invece di tu corresti: doverosa una severa nota di demerito). Buona lettura.

Per il cuore la vita è semplice: batte finché può.

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