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Con la lancinante esattezza di un sismografo


Recensione di “Addio a Berlino” di Christopher Isherwood

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Christopher Isherwood, Addio a Berlino, Adelphi

Immaginate una catastrofe di immani proporzioni descritta esclusivamente attraverso dettagli apparentemente secondari; immaginate l’eruzione di un vulcano o la devastazione causata da maremoto riassunti in uno sguardo

impaurito, in una bocca spalancata; pensate all’orrore di una guerra disegnato sul corpo esausto di un soldato, sugli stivali infangati, sull’uniforme lacera. Avrete la storia, in tutta la sua drammaticità ma senza il clamore, lo scandalo; avrete gli avvenimenti nella loro essenzialità, il nudo resoconto, il fatto in sé depurato da ogni commento superfluo. Proprio questo, vale a dire la terrificante anatomia di una deriva, la dissezione autoptica del naufragio di una nazione, di un continente e infine del mondo, è quanto ci consegna Christopher Isherwood nel suo splendido e dolente Addio a Berlino (in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Maria Martone). Come ben scrive Giovanni Raboni nella prefazione all’opera, “In uno dei capolavori di Stendhal, La Certosa di Parma, Fabrizio del Dongo partecipa alla battaglia di Waterloo senza capire nulla di quanto sta succedendo intorno a lui e, soprattutto, senza minimamente accorgersi, forse proprio perché è accecato da una giovanile, ansiosa infatuazione per la Storia, che sta vivendo, sia pure da comparsa o figurante, un grande avvenimento storico. L’atteggiamento del protagonista di Addio a Berlino, che è poi, a cominciare dai riferimenti anagrafici, lo stesso autore del romanzo, Christopher Isherwood, è perfettamente opposto e simmetrico a quello di Fabrizio. Egli non ha nessun entusiasmo per la Storia; al contrario, nutre nei suoi confronti un elegante e amaro scetticismo; a interessarlo sono gli esseri umani, le loro struggenti e stravaganti miserie. Ed è per questo, probabilmente, che riesce a cogliere il senso di ciò che avviene intorno a lui, la fine di un’epoca, la preparazione di un’immane catastrofe storica, con tanta e così impassibile e lancinante esattezza; la stessa esattezza, si direbbe, con cui un sismografo registra i sussulti profondi della terra prima che il terremoto affiori e si manifesti secondo i parametri della visibilità. Penso sia questo il segreto del fascino e, oserei dire, dell’indispensabilità di questo libro. Sappiamo tutto, in termini di visibilità storica sul periodo che ha visto, nella Germania dei primi anni Trenta, quella che Brecht avrebbe chiamato la resistibile ascesa del nazismo. Ma nessuno ce l’ha raccontato e mostrato, quel periodo, e fatto vivere dal di dentro nella sua banale, agghiacciante quotidianità, come ha saputo fare Isherwood in Addio a Berlino. Nelle sue pagine, scritte, non dimentichiamolo, prima della guerra, e molto prima che le atrocità del nazismo fossero scoperte e divulgate in tutta la loro apocalittica ampiezza, una delle più complete débacle che l’umanità e la civiltà abbiamo mai subite ci viene descritta giorno per giorno, con voce tranquilla e sommessa, nel suo pacifico maturare, nella sua silenziosa incubazione“.

Ecco dunque lo splendore, allo stesso tempo assoluto e opaco, di un romanzo che pur guardando oltre il proprio orizzonte con impressionante lucidità non può dirsi profetico proprio perché non ha in sé nulla della scenografica pompa di una verità rivelata; le pagine di Addio a Berlino, lungi dall’imporsi all’attenzione del lettore, sembrano invece sfuggirgli, ritrarsi timide dinanzi al suo sguardo avido, alla sua curiosità importuna. Isherwood non declama, e neppure discorre, non veste gli abiti del conferenziere, né assume il professorale atteggiamento di chi, avendo compreso per tempo ciò che sta per accadere, si ingegna di spiegarlo a una massa inerte, cieca e sorda; egli sussurra, a se stesso prima di tutto, compone un monologo, squaderna sentimenti e li affida a una prosa che somiglia all’intima confessione di un diario. Cittadino tra i tanti di un mondo sul quale sta calando la più fitta oscurità, egli in qualche misura ne è anche straniero, mantiene una sorta di irriducibilità nei riguardi delle esperienze che pur vive, riesce a non farsi raggiungere da quel che vede succedere e di conseguenza viene risparmiato dalla catastrofe; la valanga non lo travolge. Gli affida però, proprio in quanto sopravvissuto, il dovere della testimonianza, che egli assolve con commovente diligenza, quasi senza darlo a vedere, ingegnandosi di celare tutto ciò che afferma nel preciso momento in cui lo dichiara. Suo intento, infatti, non è scrivere la Storia, o addirittura consegnarne gli ingombranti perché a chi verrà dopo di lui; egli non chiede altro che di camminare al fianco dei compagni di viaggio che ha scelto, o forse nei quali si è semplicemente imbattuto, e di ciò che incarnano; attrici in cerca di successo, una sorta di volgare aridità esistenziale che a qualsiasi latitudine sembra accompagnare chi ha grandi disponibilità economiche, l’illusione della libertà cercata nella sfrenatezza dei divertimenti e in una sessualità quanto più possibile disinibita, l’invidia sorda e il rancore di famiglie popolari in spasmodica attesa che vengano riparati (magari anche con la forza) torti che forse non hanno mai davvero subito. Il resto viene da sé; la terra ha tremato e le prime scosse sono state registrare. Per il terremoto vero e proprio è solo questione di tempo. 

Eccovi l’incipit. Buona lettura. 

Dalla mia finestra vedo la strada fonda, solenne, massiccia. Botteghe seminterrate dove tuto il giorno ardono lumi, all’ombra di facciate cariche di pesanti balconi, di sporchi frontoni di stucco ornati di scudi, nastri svolazzanti e altri simboli araldici.

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