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L’umanesimo. La sola risposta possibile


Recensione di “Insegnare al principe di Danimarca” di Carla Melazzini

recensione . carla melazzini - insegnare al principe di Danimarca
Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio

“[…] Insieme a Cesare Moreno, suo marito, e ad altre persone, Carla Melazzini ha promosso e condotto per undici anni il ‘Progetto Chance‘: chiamato impropriamente progetto, perché è stato una vera scuola impegnata a svolgere il programma previsto per la licenza di terza media per giovani che la scuola l’hanno abbandonata.

 I ragazzi vi si iscrivono volontariamente – è quasi un arruolamento civile. La distinzione fra le varie discipline è spesso sconvolta. Oltre agli insegnanti ci sono educatori e genitori ‘sociali’. Si si realizzano molte attività pratiche e attorno a quelle esperienze si impara a leggere scrivere e far di conto. Nel 2000 si costituì, grazie a una donazione del Presidente della Repubblica Ciampi, l’associazione Onlus ‘Maestri di Strada’, che avrebbe spesso affiancato il Progetto Chance con borse di studio o prestiti a ragazzi con particolari difficoltà. Le ‘mamme sociali’ sono donne del quartiere che hanno ricevuto una speciale preparazione e lavorano insieme ai docenti, offrendo la capacità di cura e di mediazione che accompagna i processi di crescita ed è, o dovrebbe essere, dei genitori, e ha un significato particolare per ragazzi che si sentono le spalle scoperte. Il luogo di questa esperienza è la periferia orientale della città, Barra, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio. Un tempo era la zona operaia per eccellenza. Le ripetute crisi industriali ne hanno fatto una periferia degradata, teatro di guerra per bande criminali. ‘Se proprio vogliamo considerare una persona come una pianta, allora le sue radici stanno dentro di lei, e trasportano i succhi nutritivi di coloro che l’hanno generata ed educata, cioè tirata fuori: se le radici sono sufficientemente buone, la pianta si deve alzare ed espandere nel mondo circostante. Questo è l’unico significato positivo che intravvedo nella metafora delle radici. Vedo invece tutto un rattrappirsi su presunte radici locali, etniche eccetera, che dà il senso del soffocamento… Chiunque si prendesse la briga di venire in questi quartieri a verificare la maledizione di certi cognomi, che ricorrono di generazione in generazione, sempre gli stessi, scritti in nero sui manifesti funebri recanti la sigla è mancato all’affetto dei suoi cari, riservata ai morti ammazzati, costui si leverebbe il vizio di elogiare il radicamento‘”. Si conclude così, con una citazione forte di Carla Melazzini, fondatrice del Progetto Chance e autrice di questo bellissimo libro (meritoriamente edito da Sellerio) intitolato Insegnare al principe di Danimarca, la nota introduttiva a un lavoro indimenticabile per la nobiltà del respiro etico, per il feroce, tragico realismo e soprattutto per la nuda, scandalosa autenticità della testimonianza offerta ai lettori.

Pur al di fuori di qualsiasi contesto istituzionale (o forse proprio in ragione di ciò) Insegnare al principe di Danimarca è un libro che parla di scuola, di quel che la scuola significa (o dovrebbe significare), di ciò che ha la responsabilità di essere e di cosa le persone che la avvicinano – i ragazzi, e in questo caso quei particolari giovani strangolati dall’onnipotenza della criminalità mafiosa, contagiati dal cortocircuito morale che premia (con il mantenimento in vita, con la sopravvivenza, con l’illusione perversa di un potere sugli altri che altro non è se non la vigliacca tirannia del forte verso il debole) la muta fedeltà del gregario al capobranco e condanna alla radice l’idea stessa di indipendenza, di costruzione di sé – hanno il diritto di pretendere da lei nelle persone che la rappresentano, la vivono, la incarnano, la trasmettono, la donano (le maestre, i maestri, gli educatori e le educatrici e in questo caso anche le mamme sociali, fondamentali nel loro più che coraggioso lavoro di raccordo). Carla Melazzini racconta con il disincanto e la piena e assoluta partecipazione umana e politica di chi ha la forza di guardare all’uomo per quel che realmente è; il suo sguardo è carico di quell’umanesimo che nulla ha di retorico, che non ha tempo da perdere con l’idealizzazione, o peggio la santificazione, della povertà, che non si balocca in un dickensiano (e l’aggettivo va inteso come omaggio alla maestria del grande scrittore inglese, impareggiabile nel disegnare personaggi splendidamente detestabili nella loro vuota moralità di facciata) autocompiacimento da elemosina natalizia, ma che al contrario intende dare corpo, con la propria persona prima ancora che attraverso il lavoro sul campo, a tutto quello che i suoi occhi sfiorano. Le mani che stringono i corpi ribelli e spaventati dei ragazzi cui cerca di insegnare a essere persone, cui intende restituire l’identità che è stata loro sottratta dalla nascita senza che avessero né colpa né responsabilità di questa immane disgrazia, le mani che accompagnano nella gestualità i discorsi, e poi le lezioni, e poi ancora le parole che seguono i momenti d’aula, quasi superflui, nella ripetitiva meccanica dell’imparare-quello-che-si-spiega, se paragonati alla vita così stentatamente vissuta che tutti investe nella sua furia, nella sua urgenza di emergere, di essere lì, di farsi riconoscere, di farsi dire, di avere diritto alla parola, sono le medesime che danno forma al libro; quel che l’autrice racconta in queste pagine densissime dove non esiste spiraglio possibile non solo per la menzogna ma perfino per un minimo allentamento di quel che è vero, di quel che è per il modo in cui è, non importa quanto intollerabile sia, quanto ingiusto appaia, quanto terrificante dimostri di essere, è sic et simpliceter ciò che succede, quell’essenziale che è ben visibile agli occhi ma che ha bisogno anche del cuore per essere guardato e accettato nella sua spaventosa, tumorale immanenza.

Come affrontarlo, dunque, questo quotidiano fatto di morti ammazzati, di giovani allo sbando? Come vivere in questo mondo alla rovescia dove il proprio quartiere non è casa ma prigione e nonostante ciò è il solo luogo nel quale ci si riesce a muovere, si può camminare, ci si sente in qualche modo al sicuro? Offrendo, risponde Melazzini, l’umanesimo di un insegnamento che sia prima di tutto ascolto, comprensione (cioè capacità di prendere in sé, di fare proprio quel che è altro, ma non ancora irrimediabilmente, per fortuna), condivisione; Carla Melazzini e il gruppo di maestri, educatori e genitori del Progetto Chance sono persone pronte a sporgersi verso gli altri, ad affidarsi al loro dolore, perché hanno compreso, e lo hanno compreso con il cuore, che solo accettando di mettersi in viaggio come compagni e non come guide si può arrivare a chiedere, a chi ci sta a fianco, di fidarsi a sua volta della nostra mano tesa, e di affidarcisi. Ecco dunque la scuola divenire luogo circolare, dove si impara e si insegna senza che quasi vi sia distinzione di ruoli, dove è comune la disponibilità ad aprirsi ed è sempre presente e viva la coscienza che ogni passo avanti compiuto è un universo intero conquistato e ogni resistenza non superata non un fallimento ma il naturale inciampo presente in ogni percorso che si ponga una meta da raggiungere.

Non dimenticare chi siamo, chi è ciascuno di noi, non tralasciare, non trascurare la sola componente che conti veramente, quella delle esperienze che lasciano cicatrici nel corpo e ferite non rimarginabili nello spirito, questo è ciò che la scuola, sempre, a qualsiasi latitudine e con qualsivoglia ragazza o ragazzo, bambina o bambino, dovrebbe fare e prima ancora dovrebbe essere. Carla Melazzini (scomparsa nel 2009), andando in luoghi che è fin troppo facile definire di trincea – perché così li si tiene lontani dalla sicurezza dei nostri recinti protetti, dove i ragazzi difficili non hanno parenti in carcere per omicidio o peggio ancora giustiziati dai sicari della camorra – ce lo ha dapprima mostrato, poi magistralmente narrato

Eccovi l’incipit, buona lettura. Prima di salutarvi un ringraziamento commosso a Milena Albertin, cara amica e bravissima insegnante, cui devo l’incontro con questo libro. 

Mimmo, a 15 anni, è sicuro che il suo dovere sarebbe di uccidere l’uomo per il quale sua madreha abbandonato da un giorno all’altro i cinque figli.

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