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Morire. In una terra in cui la maledizione peggiore è vivere

Recensione di “Sei racconti polizieschi” di William Faulkner

William Faulkner, Sei racconti polizieschi, Einaudi
William Faulkner, Sei racconti polizieschi, Einaudi

È una terra dura il Sud degli Stati Uniti. È chiusa, scontrosa, custodisce gelosamente i suoi segreti e trabocca d’orgoglio per le proprie tradizioni, per i riti immutabili che scandiscono la vita degli abitanti. Non guarda oltre se stessa non perché non ne sia capace, ma perché non le importa di farlo; perché i suoi confini, in fondo, sono i confini del mondo.


Di questi luoghi, in cui il silenzio conta più di qualsiasi parola, dove uomini e donne riconoscono, come sola legge possibile, quella della sopravvivenza personale e nei quali ogni sopruso, ogni violenza, scompare nel respiro indifferente della natura, racconta William Faulkner in Sei racconti polizieschi, raccolta di storie gialle pubblicate nel 1949 (lo stesso anno in cui lo scrittore americano fu insignito del premio Nobel per la Letteratura).

Figlio di quel Sud che descrive con accenti impietosi, che bruciano come ferite – era nato a New Albany, a pochi chilometri da Oxford, capoluogo della contea di Lafayette, nel Mississippi – Faulkner in questo suo lavoro mescola abilmente realtà e invenzione: dà vita all’immaginaria contea di Yoknapatawpha (che in tal modo diviene modello, archetipo di tutti gli Stati del Sud e delle loro spesso tragiche peculiarità), trae parte del materiale narrativo (quello più interessante, che si articola nelle puntuali descrizioni d’ambiente, nella ruvida caratterizzazione dei personaggi, nella vergogna della questione razziale, che priva la gente di colore del diritto di essere individui e la raccoglie tutta nel neutro vocabolo “negri”, o neri, nelle atmosfere cupe,  maledette, segnate da un destino di tormento, infelicità e morte) dalle sue esperienze personali ma poi lo arricchisce forgiandolo in forma di mystery e affidandone la cronaca a un altro personaggio di fantasia, Gavin Stevens,  di professione avvocato, detective dilettante ma brillantissimo.

Della gente del Sud, schiva, diffidente ma dall’istintualità impetuosa, ferina, capace di esplodere senza preavviso con ferocia irrefrenabile, Stevens è molto più di un semplice contraltare. È l’incarnazione di ogni possibile stranezza, di ogni “follia”, di ogni assurda eccentricità: garbato nei modi, laddove i suoi interlocutori sono, nel migliore dei casi, poco avvezzi alle regole basilari della buona educazione, Stevens è anche un fine conversatore, che si compiace del proprio sapere e della propria eloquenza; è un uomo che sa quel che vale, che ha imparato a conoscere le proprie qualità e ad apprezzarle e che forse proprio per questo riesce a guardare a quel che accade intorno a lui (agli omicidi, alle brutalità, alle crudeltà inconfessabili) con la volontà di comprendere e non soltanto con la determinazione di punire i responsabili. La giustizia, spiega l’autore attraverso il suo personaggio, deve essere conoscenza, deve essere ascolto e capacità di capire, soprattutto in una realtà nella quale è quasi sempre la solitudine a generare mostri.

Come nella migliore tradizione del genere, le indagini dell’avvocato Stevens, parallele a quelle ufficiali, svelano verità sorprendenti e conducono infallibilmente all’arresto del colpevole. Per la gioia del lettore appassionato di gialli, non mancano, in questa raccolta, colpi di scena, false piste, soluzioni inaspettate, eppure il mistero, i delitti, le indagini e la scoperta degli assassini è come se restassero sempre sullo sfondo. Gavin Stevens investiga, proprio come hanno fatto prima di lui tanti altri detective letterari, ma quel che scopre, al di là degli omicidi, sono esistenze perdute (come quella del sempliciotto Monk, protagonista del racconto omonimo), vite alla deriva, intrighi familiari (narrati nel primo racconto della raccolta, Fumo, e in Gambetto di cavallo), affetti che, per quanto sinceri, non hanno la forza di affrancare le persone dai propri dolori, o dai rimorsi o dai rimpianti (come accade nel racconto intitolato Domani, nel quale un giurato si rifiuta di riconoscere la legittima difesa, malgrado sia palese, a un imputato in un processo per omicidio perché legato alla persona uccisa per legittima difesa); il mondo in cui si muove Stevens è una zona grigia dove a trionfare è la sconfitta, dove il carnefice sembra essere soltanto una vittima che si è arresa un po’ più tardi. Yoknapatawpha forse non è un inferno in terra, qui però gli assassini non sono semplicemente persone cui dare la caccia.

I Sei racconti polizieschi di Faulkner non sono una lettura semplice; lo stile dello scrittore americano è volutamente ampolloso, ricercato, fin troppo ricco. Non c’è agilità nelle storie, né il crescendo di tensione che così spesso caratterizza storie di delitti, ma queste, come già accennato, non sono mancanze, perché i gialli di Faulkner sono la cruda cronaca di una terra aspra dove la morte è un accidente tra i tanti, non la più grande delle tragedie.

Eccovi l’inizio del primo racconto, Fumo. Buona lettura.

Anselm Holland giunse a Jefferson molti anni fa. Nessuno sapeva da dove. Ma era un giovanotto allora, e aveva del talento, o almeno una bella presenza, perché in capo a tre anni si sposò con l’unica figlia del proprietario di duemila acri della miglior terra della contea e andò a vivere a casa del suocero dove, due anni più tardi, la moglie gli diede due gemelli e dove, dopo altri due anni, il suocero morì lasciando Holland proprietario effettivo di tutti i suoi beni che erano ormai intestati alla moglie. Ma ancor prima che ciò avvenisse, noi di Jefferson l’avevamo già sentito parlare in tono poco meno che arrogante della «mia terra», del «mio raccolto»; così quelli di noi i cui padri e nonni erano originari della contea lo guardavano con freddezza e diffidenza, immaginando (da certe voci che circolavano sul suo conto tra i fittavoli bianchi e neri, e tra quanti erano in rapporto con lui) che fosse un uomo crudele e violento. Ma per non far dispiacere a sua moglie e per rispetto verso il suocero, lo trattavamo con cortesia se non proprio con riguardo. Così quando anche la moglie morì, lasciando i figli in tenera età, noi fummo certi che ne fosse lui il responsabile, che la vita di quella donna si fosse logorata per la bieca violenza di un forestiero brutale e ignorante. E quando i figli diventarono grandi e prima l’uno e poi l’altro se ne andarono definitivamente di casa, nessuno ne fu sorpreso.  

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