Recensione di “Nord” di Louis-Ferdinand Céline
“Non vedendo altra speranza se non in una direzione della rosa dei venti, quel Nord che dà il titolo al volume centrale della trilogia, la bussola costantemente in mano – ultima guida possibile in un simile mondo al tempo stesso ingannevole e fuori orbita – Céline zigzaga attraverso la Germania del 1944 come Bardamu attraverso le Fiandre e le Ardenne nel 1914. Dappertutto la morte lo minaccia, e sotto mille forme – pallottole e bombe, trucchi, trappole, complotti, carestia. Va di rifugio precario in rifugio precario, dorme solo a metà, acconsente a tutto per salvare la sua vita e quella di coloro di cui è responsabile.
Non è più altro se non questo accanimento a vivere, pallina saltellante al di sopra del getto d’acqua in un tirassegno da fiera, immagine stessa dell’uomo minacciato. Ma lui stesso non è esente dall’aver desiderato, o persino ricercato, questa situazione. Bardamu, come si ricorderà, si era lui stesso arruolato. Analogamente nel 1944, non è un caso se, fra tutte le diverse possibilità che aveva per fuggire, Céline sceglie quella che lo obbliga ad attraversare il paese destinato chiaramente a diventare l’ultimo campo di battaglia. «Mi ci trovavo dentro per curiosità», confessa nel 1960”.
Così Henri Godard riassume Nord, secondo capitolo della Trilogia del Nord di Louis Ferdinand Céline (del primo volume dell’opera, Da un castello all’altro, ho già scritto in questo blog), viaggio allucinato nel cuore di un Germania devastata, destatasi d’improvviso dal sogno folle del Reich millenario e alle prese con la propria agonia. Il grande scrittore francese vive in prima persona il doloroso risveglio tedesco; la disfatta, con tutto quel che porta con sé (in primo luogo il ritorno dell’uomo al suo naturale stato di ferinità, all’arbitrio incontrollabile dell’istinto di sopravvivenza personale, cui tutto è sacrificabile) è materiale preziosissimo per chi, come lui, ha dedicato la vita al negletto mestiere di “cronista della natura umana”.
Testimone oculare della vita, dei suoi rari eroismi, dei suoi abissi e delle sue infinite miserie, Céline veste di sacrificio la propria odissea e racconta la deriva di un mondo intero aggrappandosi a una guerra perduta, e a tutte le tragedie che porta con sé, come se non si trattasse d’altro che di un semplice espediente narrativo, di una storia “a portata di mano”.
La forte unità tematica riscontrabile nella Trilogia del Nord non è un’eccezione nella produzione di questo eccelso romanziere (a mio avviso uno degli autori più significativi del Novecento), ma la continuazione di un discorso, o meglio di un tema, che costituisce l’ossatura, il fondamento, della sua magistrale fatica letteraria. Céline, infatti, medico di professione, è uno studioso d’uomini; la sua penna arriva dove i ferri del mestiere non possono giungere, all’anima, ai sentimenti, alla volontà, in una parola a quella vita dello spirito che dovrebbe caratterizzarci come esseri umani e che l’autore, invece, non riesce a non vedere per ciò che realmente è: una teoria di miserie, uno spettacolo di desolazione e morte, in nulla dissimile da quello offerto dalla Germania prossima alla capitolazione. E così Céline, quasi inevitabilmente, si trova a vestire i panni del giudice, e attraverso la sua scrittura ruvida, tagliente, diretta come lo sono gli insulti, feroce come lo è la rabbia, sincera come lo è il pianto di colui cui non sono rimaste altro che le lacrime, egli svela i nostri segreti più inconfessabili esponendoli alla cruda luce della parola, di una parola spogliata di ogni letterarietà e ridotta all’essenziale. “Per dormire ci vuole dell’ottimismo, oltre a un certo comodo…”, confessa, per poi concludere, in una sorta di supina accettazione della sostanziale infelicità e ingiustizia del mondo, “per me e la gente della mia condizione i treni smetteranno mai di fischiare!”.
Nord è un romanzo potente, appassionato e stanco. Il respiro della scrittura segue quello affannato del suo autore e lo sfinimento dell’uomo riverbera nella sua prosa, che s’incendia con più vigore proprio nei momenti in cui Céline accarezza la resa ultima e definitiva: “Non abbiamo ragione di sorprenderci… lui non vuole vederci, e allora?… gli altri neppure! Montmartre, Bezons, Sartrouville, Londra, Tegucigalpa, stessi sentimenti! disprezzati ovunque! tutt’al più, ostaggi! e porco d’un cane se lo siamo ancora!… e se domani ti epurano ancora?… la piega è fatta! sarà mica altri, saremo noi! che siano in un conflitto della madonna, si strappino tutte le budella a chi avrà torto o ragione, si sbafino cruda la cortina di ferro, rabbie, razze, religioni, sette, colori, universo tutti d’accordo, che siamo noi i colpevoli! non altri! che siamo noi tutti i crimini!”.
Eccovi l’incipit (la traduzione, splendida, è di Giuseppe Guglielmi nell’edizione Einaudi-Gallimard). Buona lettura.
Oh, sì, mi dico, fra poco sarà tutto finito… auf!… abbiamo visto abbastanza… a sessantacinque anni e passa davvero che ti può fregare della più peggio arcibomba H?…Z?…Y?… aria fritta!… briciole!… solo orribile il sentimento di aver perduto così tutto il proprio tempo e che megatoni di sforzi per sta dannata mostruosa orda di alcolosi checche lacchè… vacca miseria, signora!… «venda i suoi rancori e stia zitto»!… caspita, ci sto!… mi piacerebbe, ma a chi?… i compratori mi fanno il grugno, pare… gli piacciono e comprano solo che gli autori fatti quasi come loro, con giusto in più il piccolo bordo a colore… caporuffiano, caponettaculo, leccacoso, evasioni, acquasantiere, pali, bidè, ghigliottine, imballi… che il lettore ci si ritrovi, si senta simile, fratello, molto comprensivo, pronto a tutto… «La pianti!… in galera c’era già il dieci per cento di “volontari”, lei è del mucchio!».