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La materia d’incubo del sublime

Recensione di “Dio di illusioni” di Donna Tartt

 

Donna Tartt, Dio di illusioni, Rizzoli
Donna Tartt, Dio di illusioni, Rizzoli

Il mondo del sublime, quello degli studi classici, del greco antico e delle sue infinite sfumature di significato, di Platone maestro d’etica, della storia gloriosa e terribile narrata da Tucidide, della tragedia e del mito, del furore vendicativo delle Erinni, capaci di “rendere le persone tanto se stesse da non poterlo sopportare”, è talmente nobile da essere esclusivo, e tanto folle da travolgere anime e spezzare vite.


Il mondo del sublime, degli studi elitari e raffinati, della conoscenza custodita come privilegio di casta e trasmessa come fosse il più prezioso dei segreti fa da sfondo, da palcoscenico narrativo a Dio di illusioni, romanzo-fiume di Donna Tartt ambientato in un prestigioso college del Vermont e raccontato in prima persona da uno dei protagonisti della vicenda, il ventiseienne Richard Papen, “californiano di nascita e di carattere”, figlio di una coppia come tante, padre gestore di una stazione di servizio e madre casalinga, una passione per la cultura, e soprattutto per la lingua greca, sbocciata d’improvviso negli anni del liceo.

Ad Hampden, college progressista, specializzato in materie umanistiche, altamente selettivo, fondato nel 1895, blasonato, austero, inequivocabilmente snob e orgoglioso di esserlo, Papen capita per caso, o per fortuna, per un capriccio benevolo della sorte o per un destino di dannazione che lo attende paziente come un piano diabolico studiato nei minimi dettagli; lì, in quegli ambienti caldi, raffinati e severi, il giovane respira per la prima volta in vita sua un’aria familiare, riesce a sentirsi se stesso, perfino ad accarezzare qualcosa di molto vicino alla felicità, ma il suo cammino, negli studi come nella vita, è soltanto all’inizio. La sua intenzione è proseguire con il greco, ma nel college a insegnare quella materia c’è solo un docente, Julian Morrow, uomo colto, ricco, originale nei metodi di insegnamento come nei criteri di selezione dei suoi studenti (cinque in tutto, cui tiene lezione nel chiuso del suo ufficio) e restio ad ampliare il proprio uditorio. Ma ancora una volta è una circostanza fortuita, o di nuovo un disegno perfettamente orchestrato, a intervenire, e il giovane entra a far parte della ristretta cerchia di discepoli di Morrow. È nella particolare atmosfera delle sue lezioni, in quella scuola nella scuola che pretenziosamente vuole riproporre (o forse persino ripristinare) la pedagogia luminosa dell’Accademia e del Liceo, l’intransigente fasto dialettico degli stoici, la veemente, corrosiva anarchia di Diogene il Cinico, che Papen cede al fascino ambiguo del professore e dei compagni, in nulla simili a lui se non nel loro ruolo di studenti ma in compenso quasi specchio dell’imprevedibilità astuta della loro guida, della sua personalità inafferrabile e multiforme, della sua intelligenza sdegnosa, della sua visione del mondo fieramente inattuale e più di tutto di quella speciale arroganza che solo una grande ricchezza sa instillare con tanta accuratezza nei cuori e nelle menti.

Poco alla volta, Papen stringe con i cinque ragazzi un’amicizia sottile, insinuante e asimmetrica che lo conduce alle soglie di un mondo nuovo, lussureggiante e spaventoso, un regno d’Atlantide favoloso e letale che, senza che lui riesca ad accorgersene per tempo, lo prende prigioniero.  Una volta introdotto in quella strana consorteria, infatti, il ragazzo non ci mette molto a scoprire che quel che lega tra i loro i suoi compagni non è né reciproco affetto né incondizionato amore per la bellezza, ma piuttosto un malato senso di superiorità e una tragica aspirazione all’assoluto che li ha condotti, in una “notte d’estasi dionisiaca”, ben oltre i confini di ciò che è lecito, al di là della misericordia, della pietà, della compassione. 

Ogni crimine, ogni delitto, ha una propria coscienza, e quello commesso dagli alunni del professor Morrow non fa eccezione. Tuttavia non è nella forma di un rimorso, né di un bisogno di espiazione, né di una presa di coscienza della ridicola tragicità insita in un insopprimibile bisogno di distinzione da tutto e da tutti che l’evidenza di quel che è stato fatto si manifesta , bensì in quella di un ricatto (organizzato da Edmund “Bunny” Corcoran, unico testimone di quell’assurda notte, ai danni dei propri compagni), dunque di un commercio vile, spregevole, che nulla ha a che fare con le meraviglie della classicità di cui questi ragazzi si credono eredi. Così, a prevalere su tutti loro, alla fine, è l’istinto di sopravvivenza, che li trasforma, da uomini convinti di poter scoprire in sé una scintilla del divino, in bestie feroci.

Appassionato romanzo di formazione e avvincente giallo d’atmosfera, Dio di illusioni, esordio letterario di Donna Tartt, che lo scrisse a ventotto anni, è un’opera contraddittoria, capace in egual misura di attrarre e respingere. Malgrado sia diseguale e scomposto (la narrazione è eccessiva, tanto nel numero delle pagine quanto nel ritmo, che in un procedere privo di equilibrio alterna momenti di grande tensione a lunghe parentesi di stasi che mettono alla prova la pazienza del lettore), il romanzo colpisce per la puntualità descrittiva, l’approfondimento psicologico e per un realistico pessimismo di fondo che dà spessore all’intera vicenda. Non un capolavoro, insomma, ma neppure una lettura oziosa, o peggio, inutile. Leggetelo; scoprirete che in qualche modo questo libro saprà farsi ricordare.

Eccovi l’incipit (la traduzione, per Rizzoli, è di Idolina Landolfi). Buona lettura.

La neve sulle montagne si stava sciogliendo e Bunny era già morto da molte settimane prima che arrivassimo a comprendere la gravità della nostra situazione. Era già morto da dieci giorni quando lo trovarono, sapete. Fu la più grande battuta della storia del Vermont-polizia dello Stato, FBI, persino un elicottero dell’esercito; il college chiuse, la fabbrica di colori a Hampden serrò i battenti, la gente veniva dal New Hampshire, dal nord dello Stato di New York, addirittura da Boston.

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