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Agli occhi di chi è poco più di un bambino

Recensione di “Le avventure di Tom Sawyer” di Mark Twain

Mark Twayn, Le avventura di Tow Sawyer, Garzanti
Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer, Garzanti

Agli occhi di chi è poco più di un bambino ogni cosa profuma d’avventura. Agli occhi di chi è poco più di un bambino l’orizzonte si presenta allo stesso tempo come una promessa e una minaccia; come il canto di una sirena e l’urlo di una strega; simile a una caverna colma di tesori e alla più angusta delle prigioni, al fuoco inestinguibile del coraggio e all’oscurità cieca della paura.


Agli occhi di chi è poco più di un bambino è la scoperta la sola cosa che conti, e l’ignoto il solo continente degno di essere esplorato; un ignoto che abita tanto negli angoli d’ombra della propria stanza da letto quanto nel folto di un bosco attraversato per la prima volta, un ignoto che di continuo muta, come incessantemente mutano le forme delle nuvole in cielo, e che scalda il cuore come l’abbraccio di un amico, o lo infiamma, come il bacio di una fanciulla amata, o lo raggela, come solo riesce a farlo la più terribile delle minacce.

Agli occhi di chi è poco più di un bambino, la vita non è che una corsa a perdifiato tra un ininterrotto fiorire di sogni, e proprio così la assapora, ora dopo ora e giorno dopo giorno, Tom Sawyer, il monello dal cuore d’oro nato dalla fantasia (e da un buon numero di vissuti personali) dello scrittore americano Mark Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens.

Di questo adorabile scavezzacollo, spudorato e sbruffone ma anche coraggioso e saggio quanto basta da aver paura quando è davvero il caso di averne e soprattutto capace di meravigliosi slanci nobili – è grazie alla sua testimonianza, per esempio, che un innocente, accusato di omicidio, si salva da una condanna auspicata da molti e ritenuta certa da tutti – ci offre un esaustivo profilo (che per contrasto è anche un assai poco edificante ritratto della società rurale americana degli stati del sud nella prima metà del XIX secolo) Sergio Campailla nella prefazione al romanzo pubblicato da Newton Compton (e tradotto da Mariagrazia Bianchi Oddera):

“Chi è Tom Sawyer? È un ragazzo, di età imprecisata, orfano di padre e di madre, quindi senza l’eredità di modelli diretti, che fugge al controllo affettivo della zia Polly, alle costrizioni della scuola, al conformismo dell’ambiente sociale di una piccola cittadina, St. Petersburg. Poniamo di fronte a lui il fratello Sidney, obbediente, invidioso, spione, omologato in base all’educazione vigente: e capiremo da questa brutta copia che Tom non ci sta, per fortuna sua e nostra. Egli se la svigna da casa al segnale prefissato di un finto miagolio a mezzanotte, si distrae in chiesa inventando espedienti chimerici e innocui, si burla in classe di insegnanti maneschi che impartiscono una cultura mnemonica e ipocrita. In verità, l’affresco sociale che viene fuori dalle pagine di Mark Twain è desolante: la zia Polly si fa suggestionare da qualsiasi ciarlataneria alla moda e impone con rigore sadico al nipote la somministrazione dell’Ammazzadolori; lo studio della citatissima Bibbia si riduce a imparare come pappagalli dei versetti, con attestati in bigliettini blu, rossi e gialli e il dono finale di una copia rilegata, che fa sì che uno studente di origine tedesca, più zelante degli altri, nello sforzo di recitare a memoria tremila versetti di fila, diventi deficiente; nel cimitero avvengono fenomeni di sciacallaggio […]. Non sorprende che il miglior amico di Tom sia Huckleberry Finn, il reietto della comunità, il figlio di un ubriacone violento, che se infischia dei divieti, che non è costretto a portare le scarpe la domenica, che dorme in una botte, che si può permettere il lusso di bestemmiare, se ne ha voglia, perciò invidiato dai coetanei repressi. Huck è la spalla di Tom, ma la peculiarità di quest’ultimo, il suo privilegio felice, è quello di sfuggire ai vincoli della società, senza però rompere il patto con essa, senza rinnegarla”.

Riposa in questo fragile patto tra Tom e il mondo la sostanziale delicatezza del romanzo, meritatamente considerato da critica e lettori uno dei grandi classici della letteratura per ragazzi. La prosa di Twain, pulita, giocosa, complice dell’effervescenza di Tom Sawyer, divertita come il suo eroe nella preparazione e nell’attuazione di una burla e come lui mortificata nell’espressione (brevissima ma non per questo insincera) del pentimento, ha una grazia unica e indimenticabile; è innocente e furba, proprio come lo sono i bambini, parteggia, e con ostentazione, per la ribellione e il rifiuto delle norme consolidate, ma non dimentica che le regole hanno un loro posto, e importante, nella vita di un fanciullo. Così, se da una parte si prende gioco, con deliziosa perfidia, di tutti coloro che incarnano norme vuote e inutili, quando non manifestamente dannose, è con accenti sempre rispettosi (anche nei numerosi accenni ironici) che disegna zia Polly, figura sì autoritaria ma prima di tutto punto di riferimento per Tom, che l’anziana donna ama al pari di suo figlio (anzi, persino un po’ di più, perché Tom è tutto ciò che Sid non è; nel male, e di conseguenza anche nel bene).

Romanzo delizioso e immortale, Le avventure di Tom Sawyer è un viaggio meraviglioso nei territori sempre nuovi dell’infanzia, un’opera che miracolosamente si rinnova, stupisce, sorprende e conquista a ogni lettura.

Eccovi l’inizio, buona lettura.

“Tom!”. Nessuna risposta. “Tom!”. Nessuna risposta. “Cosa sta combinando quel ragazzo, mi domando. Ehi, Tom!”. L’anziana signora spostò verso il basso gli occhiali e si guardò intorno nella stanza al di sopra di essi; poi li spostò verso l’alto e guardò fuori al di sotto di essi. Ben di rado, o mai, guardava attraverso le lenti cose di poco conto come un ragazzino; quelli erano per lei gli occhiali di gala, l’orgoglio del suo cuore, fatti per “bellezza”, non per utilità; avrebbe potuto vederci altrettanto bene ricorrendo a un paio di cerchi di quelli che servono per coprire i fornelli delle cucine economiche. Parve perplessa per un momento, poi disse, non in tono minaccioso, ma sempre a voce tanto alta da farsi udire anche dai mobili: “Bene, se ti acchiappo, io…”. Non terminò la frase, perché nel frattempo si era chinata a sferrare colpi sotto il letto, e doveva perciò prendere fiato per dare un ritmo alla proprio azione. Non ottenne altro risultato se non quello di stanare il gatto.

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