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Stretto nella parola del dio

Recensione di “Edipo a Colono” di Sofocle

Sofocle, Edipo a Colono, Garzanti
Sofocle, Edipo a Colono, Garzanti

“Molti nel passato m’hanno detto lo sterminio rosso dei tuoi occhi. Quindi so chi sei, tu, figlio di Laio […]. Questi stracci, la faccia disgraziata gridano che sì, sei tu […]. Ti capisco. Mi sono fatto uomo anch’io in casa d’altri, come te. La morte in faccia, ho visto, più di chiunque, in scontri e rischi in terre strane. Perciò non volgerei le spalle a un pellegrino, come te, ora, senza tentare di risollevarlo. Sono solo un uomo. Giorno teso nel futuro non è proprietà mia: no, non più che tua”.


Scintillano di umanissima pietà, e non, come ci si potrebbe aspettare, di regale concessione, le parole con cui Teseo, signore della città di Atene, accoglie Edipo cieco e mendico, parricida suo malgrado, ignaro consorte di sua madre e incolpevole fratello dei suoi figli, in cerca di un luogo dove attendere la fine dei suoi tormentati, dolorosissimi giorni. Nel primo discorso di Teseo, nella solidarietà offerta al supplice, nel generoso slancio della creatura mortale, cieca al pari di Edipo sul domani, su quel che sarà, e in balia dei decreti del dio, della sua volontà come dei suoi capricci, della sua vendetta e della sua giustizia, il solco incolmabile che divide cielo e terra si fa misura narrativa e tematica della potente tragedia sofoclea Edipo a Colono.

Al travolgente succedersi di eventi che caratterizza l’Edipo re (di cui ho già scritto) e che culmina con la sconvolgente scoperta (da parte di Edipo) dell’enormità del suo delitto, segue nell’Edipo a Colono, una sorta di stasi; il dolente incedere di Edipo, accompagnato nel suo peregrinare da una delle figlie, la caparbia Antigone, è specchio del suo faticoso, duro interrogarsi sull’ineluttabilità del dolore e sul mistero insolubile tanto del divino quanto dell’umano. Inconsapevole strumento di un destino già scritto, che non soltanto non è stato in grado di fuggire ma che ha, seppur senza intenzione, contribuito a trasformare in realtà, l’Edipo ritratto da Sofocle in questa tragedia potente e commossa è un uomo la cui saggezza è pari solo alla stanchezza che gli grava su cuore e membra; allo stesso tempo forgiato e distrutto da una sofferenza indicibile, egli non ha tuttavia ancora concluso il proprio calvario.

Dinanzi ai suoi occhi ormai privi di luce, infatti, la violenza delle passioni umane torna a scatenarsi: Tebe, la città su cui un tempo ha regnato, è ora oggetto d’aspra contesa, e i suoi due figli maschi, Eteocle e Polinice, si sfidano armati per la sua conquista. Né a questa lotta è estraneo il reggente Creonte, che, vestito di finta pietà (a muoverlo non è la pena per la sorte toccata a Edipo bensì la sentenza espressa da un oracolo, secondo la quale prenderà Tebe chi riuscirà a ottenere l’appoggio del vecchio esule), si reca da Edipo per convincerlo a tornare: “Uomo del dolore, Edipo, ascolta me. Raggiungi la tua casa. Coro di voci, di folla, ti chiama da Tebe. Ed è giusto. Spicco io, tra gli altri, io, che non credo di avere nelle vene sangue basso, e mi macero al tuo male, vecchio. Guarda, come sei ridotto: profugo, che brancola, rimbalza senza mete”.

Così, l’inesplicabilità del divino, il determinismo oscuro dei decreti del fato cui è impossibile sfuggire, l’incombere del disastro e il suo verificarsi (e il loro infallibile coincidere, che è il senso ultimo della tragedia classica), che nell’Edipo re avevano trovato espressione nel racconto magnifico e straziante della progressiva presa di coscienza dell’eroe (che passo dopo passo diventava la maschera mostruosa di se stesso), nell’Edipo a Colono tornano a inquietare il lettore e lo spettatore in una forma forse più sfumata ma certo non meno dirompente: edipo, sacrificato alla verità implacabile dell’oracolo, come un oracolo (impotente ma lucidissimo) è costretto a vivere il proprio tramonto: dapprima implorato e poi minacciato da Creonte, che per ottenere il suo ritorno a Tebe non esita a rapire entrambe le figlie (che gli verranno poi restituite sane e salve dal coraggioso e leale Teseo), egli viene anche raggiunto da Polinice, che, proprio come Creonte prima di lui, tenta di ingraziarsi il padre per assicurarsi la vittoria nello scontro che lo attende.

E a tutti Edipo risponde con furente amarezza, rimproverando la follia e l’insensatezza cui si condanna chi non intende comprendere la propria natura: “Disumano. Impugnavi tu potere e scettro, ora nel pugno di tuo fratello in Tebe, quando fiondasti nell’estraneo mondo me, tuo padre, fuggitivo carico di stracci, che tu adesso fissi, e piangi, entrato nel mio cerchio di dolore, compagno della mia caduta, Singhiozzi? Non ha senso […]. Non c’è nel tuo domani il colpo che sprofonda Tebe. Crollerai tu, sangue, addosso, come lebbra. Tu, e l’altro, del tuo sangue, morte pari […]. Con questo nelle orecchie va’ sulla tua strada, ripeti a tutta Tebe, alle tue lance amiche, che sono tue speranze: ecco l’eredità di Edipo, spartita nei suoi figli!”. Intanto, annunciata da prodigi che simboleggiano l’assoluta alterità tra l’eternità degli dei d’Olimpo e la fragile finitezza umana, Edipo si avvicina al termine dei suoi patimenti terreni, a quel nulla del corpo e dei sensi che è salvezza per ogni creatura mortale.

Eccovi l’inizio della tragedia. La traduzione, per Garzanti, è di Ezio Savino. Buona lettura.

(Spiazzo, cinto da magico bosco. Un masso. Sullo sfondo l’acropoli di Atene. Appare Edipo. Occhi spenti. Lo regge Antigone).

Figlia, sono spento, grigio. Antigone, in che spazi siamo? C’è vita, case, di che gente? Chi s’aprirà a Edipo perso nello spazio, gli regalerà qualcosa, oggi, una miseria? Pretende molto poco, e trova sempre meno. Ma mi sfamo, e vivo. La pazienza! Mi fa scuola il mio soffrire, questo impasto d’anni interminabili. Poi, il mio spirito. Figlia, se vedi da fermarci, vicino a passi d’uomo, o a cerchio magico di dei, fammi riposare, quieto. Voglio domandare dove siamo. Dobbiamo avere certezze, qui, noi pellegrini da gente della terra. Ci risponderanno, credo, e noi eseguiremo!

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