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Cinquemila chilometri


Recensione di “Cavallo Pazzo” di Mari Sandoz

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Mari Sandoz, Cavallo Pazzo, Bompiani

“La casa in cui ho vissuto da bambina sorgeva nella regione dell’alto corso del fiume

Niobara – l’Acqua che Corre, come lo chiamavano gli Indiani di una volta – ai bordi della regione denominata Territorio Indiano. Era vicina, o così sembrava (ché allora non c’erano sbarramenti o confini), alle grandi riserve Sioux del Dakota meridionale; vicina a Forte Robinson e ai Black Hills; tutti luoghi in cui erano finiti molti degli antichi Indiani cacciatori di bisonti, oltre a numerosi mercanti e appostatori di trappole per gli animali di cui si vendeva la pelliccia: uomini della Frontiera che avevano accolto con disprezzo l’arrivo del filo spinato e dell’aratro a mano. Avendo alle spalle un passato eroico, gli Indiani sono spesso dei narratori straordinari. Mio padre, Vecchio Jules, li attirava a sé come un tempo li avrebbe attirati una spirale di fumo che si alzasse dietro un gruppo d’alberi, oppure l’aroma del caffè verso sera. Questi vecchi Sioux si sedevano intorno alla tavola della nostra cucina, oppure, la sera, intorno ai loro fuochi. Spesso si accampavano proprio dirimpetto a casa nostra. Da loro ho sentito raccontare molti e meravigliosi episodi di caccia ai bisonti, alle pecore di montagna, agli orsi bruni, e delle loro battaglie e scorrerie dal fiume Arkansas al Musselshel, dal Missouri al Green. Quasi sempre però amavano tornare alle battaglie di quelle che i Bianchi chiamavano guerre sioux, e dall’apogeo che avevano toccato in un fatidico giorno d’estate con la battaglia del Little Big Horn solevano ripercorrere a ritroso la loro storia fino al 1854, allorché il giovane Grattan con un pugno di soldati, un interprete ubriaco e due cannoni, aveva stoltamente messo piede in un pacifico accampamento sioux e non ne era più uscito vivo. Io li ascoltavo, e mi pareva che nella trama degli episodi che narravano ricorresse – come in una treccia una fettuccia colorata – il nome di un Oglala che era appena un ragazzo quando fu ucciso il capo della sua gente. Doveva avere dodici anni, ed era posato, serio, di pelle molto chiara per essere un Indiano, con capelli così morbidi e biondi che lo chiamavano Ricciuto o anche Ragazzo dai Capelli Chiari. Ma vent’anni dopo sarebbe stato riconosciuto come il più grande guerriero oglala, e il suo nome – Cavallo Pazzo – sarebbe bastato da solo ad atterrire i bambini dei Bianchi che avevano invaso la sua terra, nonché i guerrieri più spavaldi dei suoi nemici indiani, i Serprenti e i Crow […]. Nel 1930 Eleanor Hinman ed io abbiamo fatto un viaggio di quasi cinquemila chilometri nella terra dei Sioux per identificare importanti località indiane e per vivere in mezzo a questo popolo […]. Abbiamo intervistato i pochi, vecchi cacciatori di bisonti ancora vivi, parenti e amici di Cavallo Pazzo quali Penna Rossa, Piccolo Uccisore, Toro Basso e particolarmente Cane, che gli era stato amico fraterno per tutta la vita […]. Ora il mio libro su Cavallo Pazzo è finito. In esso ho cercato di raccontare non solo la storia dell’uomo ma anche un po’ della vita del suo popolo in quel periodo cruciale”. Così Mari Sandoz introduce il suo bellissimo libro intitolato Cavallo Pazzo (in Italia edito da Bompiani nella traduzione di Donatella Tippett Andalò), che nel raccontare la vita di uno dei più grandi condottieri del popolo Sioux dà voce alla tragedia di un genocidio, al brutale sradicamento di una storia collettiva, strappata alla terra dalla quale è germogliata.

Narrare nella lingua dei conquistatori parlando in nome dei vinti, degli sconfitti; questo l’obiettivo dell’autrice, capace di restituire intatto ai lettori un tempo colpevolmente dimenticato, di cui serbano memoria soltanto coloro le cui parole sono state soffocate nel sangue. Donna bianca e insieme scrittrice indiana, Mari Sandoz sceglie la sincerità, l’onestà, l’oggettività dello storico come misura del proprio lavoro; nelle sue pagine l’opportunismo dei conquistatori bianchi, che non vedevano altro che ricchezze immense in territori che per gli indiani erano toccati dal sacro, emerge sempre con grande chiarezza; dall’altro canto, Sandoz si guarda bene dal tacere le contraddizioni che laceravano dall’interno la nazione indiana, né lascia passare sotto silenzio le lotte intestine tra le tribù, indispensabili per la sopravvivenza delle tradizioni guerriere ma rovinose nel momento in cui gli indiani erano chiamati all’unità per opporsi allo strapotere militare dei bianchi, così come non si sottrae a quello che è forse il compito più doloroso e difficile: riferire dell’opacità di alcuni eminenti capi, che, bramosi di potere e sedotti dalle lusinghe dei bianchi, hanno finito per barattare, in cambio di promesse mai mantenute, dignità e libertà di un popolo, condannandolo dapprima alla schiavitù e infine all’oblio. In questo cupo scenario emerge la figura di Cavallo Pazzo, condottiero e capo in virtù di una visione, simbolo dapprima di un’eroica resistenza e poi di una resa inevitabile eppure impugnata come scelta, difesa come atto di volontà, rivendicata come strategia di salvezza aliena da qualsiasi calcolo d’interesse.

Nel suo procedere verso una tragedia che la storia ha decretato (Cavallo Pazzo morirà ucciso da un soldato, vigliaccamente colpito, e il suo ultimo pensiero sarà per il suo popolo, lasciato solo e tuttavia non abbandonato), l’opera di Mari Sandoz riluce per splendore stilistico e verità; eterna, irraggiungibile nel suo silenzio, la natura, che gli indiani nominano con il timore e la gratitudine riservati a un Dio la cui generosità è trasparente e concreta nelle mandrie di bisonti da cacciare, nell’impetuosità delle acque dei fiumi, nella terra grassa che rinasce carica di doni dopo ogni inverno, raccoglie ogni umana debolezza con il suo carico di lacrime, dolore, sopraffazione, morte

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura. 

La sonnolenza, l’afa di metà agosto pesavano come una cappa di pelliccia sull’alto corso del fiume della Conchiglia (o Platte settentrionale, come lo chiamavano i Bianchi). Quasi ogni giorno, verso mezzodì, i tuoni addensavano una nuvola nera e andavano a cavalcarla sull’alta vetta del picco Laramie.

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