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Al momento giusto


Recensione di “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé” di Alice Miller

recensione - alice miller - il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé
Alice Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri

L’intenzionalità, la coscienza che è sempre coscienza di qualche cosa, concetto

di importanza fondamentale che la filosofia, in particolar modo la fenomenologia di Edmund Husserl, ha posto al centro della propria riflessione contribuendo a estenderne l’influenza a numerosissime discipline e nello stesso tempo offrendo un’efficace chiave interpretativa a ogni nostro agire relazionale, sembra perdere completamente consistenza di fronte all’universalità del dolore, all’impressionante pervasività della sofferenza inflitta, al carattere quasi metafisico delle dinamiche di sopraffazione e abbandono (due facce della medesima medaglia), costitutive dell’essere umano al pari del loro corredo genetico e dunque indifferenti, per quel che riguarda le loro terribili conseguenze, rispetto alla loro messa in atto cosciente o inavvertita, pianificata o replicata meccanicamente, cioè in assenza di uno specifico atto di volontà. Di questa sorta di ineluttabilità del far male, che ha radici nella vita perché in qualche misura è la vita stessa, o se si vuole uno dei suoi tratti distintivi (probabilmente il più caratterizzante), racconta Alice Miller nel suo splendido e disturbante saggio intitolato Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé (in Italia edito da Bollati Boringhieri nella traduzione di Maria Anna Massimello); prendendo le mosse dall’infanzia, anzi dai primissimi momenti di vita del neonato, la psicologa e psicoanalista svizzera descrive la struttura mentale e fisica del patimento nei termini di uno spietato determinismo che rimanda alla fatale inevitabilità della tragedia e che lascia senza fiato per la semplicità del suo svolgersi. “In passato”, scrive la Miller, “mi sono dovuta spesso domandare se saremmo mai arrivati a renderci conto della profondità della solitudine e dell’abbandono a cui siamo stati esposti da bambini […]. Non intendo qui parlare dei bambini che sono cresciuti in uno stato di evidente abbandono e che sono diventati adulti già recando in sé questa verità. Ma esistono ancora un gran numero di persone che vengono in terapia con l’immagine di un’infanzia felice e protetta, un’immagine che si sono portati dietro per tutta la vita […]. Fin dal primo colloquio queste persone fanno sapere a chi li ascolta di aver avuto dei genitori comprensivi […] e affermano che, se la gente non li capisce, questo dipende soltanto da loro, cioè dalla loro incapacità di esprimersi in modo adeguato. Comunicano i loro primi ricordi senza ombra di simpatia per il bambino che un tempo sono stati, e la cosa è tanto più sorprendente in quanto ci troviamo di fronte a persone dotate di una speciale attitudine all’introspezione […]. Eppure il rapporto che intrattengono con il mondo affettivo della loro infanzia è caratterizzato da scarso rispetto, da coazione al controllo, dalla manipolazione e dalla tendenza a fornire le massime prestazioni, tutto ciò non di rado accompagnato da un disprezzo e da un’ironia che possono arrivare fino al sarcasmo e al cinismo […]. Per poter descrivere il clima psichico di una simile infanzia formulerò […] alcune ipotesi: un bisogno primario del bambino è quello di essere considerato e preso sul serio sin dall’inizio per quello che lui è in ogni momento della sua crescita; con l’espressione ‘quello che il bambino è di volta in volta’ intendo i sentimenti, le sensazioni e la loro espressione, già nel lattante; in un’atmosfera di considerazione e tolleranza verso i suoi sentimenti, il bambino può rinunciare, nella fase di separazione, alla simbiosi con la madre, e compiere i passi necessari all’autonomia; affinché siano possibili queste premesse di un sano sviluppo, anche i genitori sarebbero dovuti crescere in un clima analogo […]; i genitori che da bambini non hanno goduto di un tale clima vivono in uno stato di carenza affettiva, il che significa che cercheranno per tutta la vita ciò che i loro genitori non hanno potuto dare loro al momento giusto, qualcuno che si interessi totalmente a loro, che li capisca fino in fondo e li prenda sul serio; questa ricerca, naturalmente, non potrà mai avere pieno successo, essa riguarda infatti una situazione irrimediabilmente trascorsa, cioè il primo periodo dopo la nascita; chi però ha in sé un bisogno insoddisfatto e inconscio – in quanto se ne difende – soggiace alla coazione a volerlo pur sempre soddisfare per vie sostitutive, fintanto che non conoscerà la storia rimossa della propria vita; a tale scopo si prestano, più di chiunque altro, i propri figli. Nella buona e nella cattiva sorte il neonato dipende dai genitori. E poiché la sua esistenza è legata alla cure parentali, farà di tutto pur di non restarne privo”.

Farà di tutto pur di non restarne privo. La razionalizzazione psicanalitica di quel che la religione cattolica ha rappresentato con i colori accesi del peccato originale e il senso comune tradotto in sentenze quali Le colpe dei padri ricadono sempre sui figli o La mela non cade mai lontana dall’albero; l’illustrazione, la più esatta e terrificante, di come dalla prigione di un esistere segnato dalla mancanza sia quasi impossibile fuggire. Al di là delle peggiori aberrazioni buone per le pagine di cronaca, e delle quali non a caso il volume non si occupa, oltre il baratro degli abusi sessuali e dei maltrattamenti fisici (ma più esatto sarebbe dire al di sotto di tutto questo, intendendo con ciò la normalità del quotidiano, dove allignano in pari tempo incoscienza e patimenti, questi ultimi tanto più atroci e insopportabili proprio perché non scelti ma agiti, quasi appartenessero a un altro e non a chi effettivamente li procura e li infligge, e di fatto proprio così stanno le cose, perché a creare dolore, a fare del male, è il bambino sofferente in cerca di un amore che non potrà più avere ma al quale non può rinunciare che abita nell’adulto senza che l’adulto lo sappia), nella vita che dovrebbe essere normale ci sono genitori profondamente insicuri sul piano emotivo che per il proprio equilibrio dipendono da determinati comportamenti dei propri figli, e figli (bambini “dotati”) capaci non solo di cogliere i bisogni dei grandi ma di corrispondervi. Per quale ragione? Per assicurarsi l’indispensabile amore di mamma e papà, che per i bambini significa, letteralmente, sopravvivenza. Pagando quale prezzo? Quello della rinuncia a sé, della propria amputazione. Scrive ancora Miller: “La capacità di adattamento viene sviluppata e perfezionata fino a trasformare questi bambini non solo in madri (confidenti, consolatori, consiglieri, sostegni) delle loro madri, ma anche in aiutanti che si assumono la responsabilità dei fratelli più piccoli; essi sviluppano in definitiva una sensibilità tutta particolare per i segnali inconsci dei bisogni altrui“.

Di madre in figlio, di generazione in generazione, di società in società, di civiltà in civiltà in un circolo vizioso senza fine, dal quale solo la verità sulla propria infanzia, una verità che resta nascosta perché la sua rivelazione romperebbe l’idealizzazione delle figure genitoriali che ogni bambino porta con sé e gelosamente custodisce, può liberare; una catena lunga anni, decenni, che da profondo disagio individuale si fa dapprima psicopatologia di massa per poi esplodere in perversa azione politica. Ancora Miller: “La rimozione dei maltrattamenti subiti nell’infanzia induce molti, ad esempio, a distruggere la vita di altri e la propria, a incendiare case di cittadini stranieri, a esercitare rappresaglie e a chiamare tutto questo ‘patriottismo’ […]. L’odio ingiustificato, spostato su innocenti, è inesauribile, non si placa mai; è disorientante, perché maschera i fatti reali e rende impossibile percepirli. Distruttivo, perché deriva da una storia rimossa di distruzione, della cui crudeltà il corpo ha mantenuto perfetta memoria. Avvelena l’anima, divora la memoria mentale, uccide non soltanto la capacità di intuito e di immedesimazione, ma anche, in fondo, la ragione“.

Uscire di prigione, dunque. Imparare a non temere il proprio odio, a non vergognarsene, ma desiderare di comprenderlo, di ascoltarne le ragioni, e attraverso esse accettare di identificare coloro che ne sono responsabili, dare finalmente un nome e un volto ai propri genitori. Perché soltanto “coloro che hanno riscoperto il loro passato, che hanno appreso nella terapia a chiarire i loro sentimenti e a cercarne le cause reali, non si trovano costretti a spostare la loro collera su persone innocenti, al fine di risparmiare quelli che tale collera hanno meritato, ma sono in condizione di odiare ciò che odioso e amare ciò che è degno di essere amato […]. Il futuro della democrazia dipende da questo passo, che può compiere solo il singolo individuo”.

Eccovi l’incipit del saggio, un’opera lacerante ma indispensabile la cui lettura consiglio senza riserve. 

L’esperienza ci insegna che, nella lotta contro i disagi psichici, alla lunga abbiamo un solo mezzo a disposizione: scoprire a livello emotivo la verità della storia unica e irripetibile che è stata quella della nostra infanzia.

3 commenti su “Al momento giusto”

  1. È un saggio che leggerò, perché sono convinta che viviamo con sulle spalle il peso del ruolo imposto dai genitori, senza possibilità di scelta.

    1. Non credo che tutti vivano in questa dimensione. Purtroppo molti per “comodità” non si scrollano dalle spalle quel peso assurdo e spesso anacronistico. Molti, anzi, lo ribaltano sulle spalle dei figli che sentono loro “proprietà” esclusiva quando invece non lo sono.
      Il fallimento di una famiglia non è eterno: basta uscirsene quando tutto va a rotoli.

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