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Il castigo del delitto


Recensione di “Il cappello del prete” di Emilio De Marchi

recensione - emilio de marchi - il cappello del prete
Emilio De Marchi, Il cappello del prete, BUR

La promessa, capolavoro di Friedrich Dürrenmatt (nel blog trovate la recensione, dovesse interessarvi), spiega come meglio non si potrebbe per quale ragione il giallo letterario classico e i suoi grandi eroi

(da Auguste Dupin a Sherlock Holmes, da Hercule Poirot a miss Marple, da Philo Vance a Nero Wolfe, e l’elenco, naturalmente, potrebbe continuare a lungo) siano null’altro, a conti fatti, che una finzione. Splendida finché si vuole, certo, ma pur sempre una finzione. Cioè qualcosa che non ha nulla a che fare con la realtà. O meglio, che di fronte alla realtà è destinata a scomparire, dissolversi, morire, come la luce al calar delle tenebre. La ragione di questa inevitabile sconfitta non sta in qualche debolezza dei personaggi appena citati, il cui acume investigativo non è in discussione, bensì in quella quota di imprevedibilità intrinseca a tutto ciò che accade che neppure la più esatta delle analisi o la più puntuale delle ricostruzioni ha il potere di controllare (e se necessario eliminare). Detto in altri termini, non si può mai essere certi che la dimostrata ragione di chi indaga conduca infallibilmente alla scoperta della verità e alla punizione del colpevole. E se questo è esattamente ciò che succede nel giallo classico è solo perché la volontà dell’autore, che in questo caso è arbitrio, ha deciso che gli eventi debbono obbedire all’investigatore di turno, conformarsi al suo disegno; egli possiede capacità eccezionali, che gli consentono di comprendere, partendo da pochi, confusi indizi, cosa sia realmente successo in un dato momento; chi abbia ucciso chi e per quale motivo, chi abbia rubato certi gioielli, quando e dove li abbia nascosti, chi abbia rapito la figlia (o la moglie, o entrambe) del ricco imprenditore, chi si sia dato alla più spietata delle vendette. In ognuna di queste situazioni, la spiegazione dell’accaduto si fa via maestra per la cattura del colpevole; in ognuna di queste situazioni fare chiarezza sul passato garantisce un felice scioglimento nel futuro. Peccato che le cose non stiano veramente così. Peccato che sapere con precisione chi sia il responsabile di un determinato fatto delittuoso non assicuri né il suo arresto né la sua punizione. Ed eccoci tornati al capolavoro di Dürrenmatt, il cui sottotitolo, non a caso, recita: Un requiem per il romanzo giallo. Egli ha compiuto il delitto letterario perfetto. E non c’è lettore che non gli debba eterna gratitudine per questo. Ben prima del grande scrittore svizzero però (per la precisione settant’anni prima), qualcun altro aveva fatto una riflessione non dissimile dalla sua, e partendo da lì aveva costruito un romanzo giallo (uno dei primi del genere in lingua italiana, pubblicato nel 1888) nel quale era proprio quella realtà fatta di coincidenze, casi, eventi inaspettati a irrompere di continuo e sconvolgere piani pensati, ripensati e messi in atto con la massima attenzione. Una realtà, è vero, spesso deformata dalla coscienza del male compiuto e dai rimorsi che a ondate travolgono il responsabile fino a fargli perdere completamente il controllo e a condannarsi con le proprie mani, ma al di là di questo dato, da considerarsi contingente nella misura in cui risulti funzionale, anzi indispensabile, al progredire della storia, qualcosa (ed è questa la chiave di tutto) di impossibile da conoscere e di cui, di conseguenza, nessun disegno può tenere conto; non la finissima tela di ragno di chi è chiamato a far luce su un mistero ma neppure il calcolato complotto di un uomo, un nobile (ancorché decaduto), gravato da debiti insolvibili e al quale non rimane, per togliersi dai guai, che mutarsi in assassino.

Di quest’uomo, il barone Carlo Coriolano di Santafusca, e della sua discesa agli inferi, narra con accenti tragicomici Emilio De Marchi ne Il cappello del prete, romanzo a un tempo oscuro e lieve, scintillante e di rara cupezza, ambientato in una Napoli sordida e orgogliosa, dominata dalla perfetta bellezza della natura che pare circondarla in un abbraccio d’amore e marcescente di povertà diffusa e ancor più estesa ignominia d’uomini. Alle prese con le conseguenze ormai estreme di una vita dissoluta, consacrata al gioco, alle donne, a una gestione fin troppo disinvolta dei beni accumulati da una dinastia prossima a esaurirsi, il barone di Santafusca, figlio dei tempi nuovi, allievo disordinato e disgraziato dell’ateo materialismo scientifico dei francesi – “Il barone Carlo Coriolano di Santafusca”, questo l’incipit del romanzo, “non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura” – non sembra avere morale alcuna oltre a quella del soddisfacimento pieno delle proprie voglie. Ma come proseguire in un’esistenza di stravizi quando non c’è più modo di mantenerli? Ed ecco, nel momento di maggior bisogno, farsi strada la soluzione più terribile, il cui perseguimento non richiede coraggio (quello può chiamarlo a raccolta chiunque, basta che si diano le giuste circostanze) bensì una determinazione quasi sovrumana, l’incrollabile certezza di essere nel giusto, di avere diritto di spingersi in territori negati alle persone comuni, frutti appassiti di virtù ancora più comuni, buone forse per i bambini, per ingenui denti da latte. Del resto, a ben guardare, che valore può avere il comandamento che obbliga a non uccidere se colui da cui proviene è ben dimostrato che non esiste? Quanto può vincolare una norma priva di legislatore? Perché dunque il barone Carlo Coriolano di Santafusca deve finire i propri giorni privo di mezzi e svergognato quando un curato senza arte né parte (se si esclude una capacità, che si potrebbe definire diabolica se il suo possessore non portasse l’abito talare, quasi infallibile di azzeccare i numeri del lotto) possiede chissà quali ricchezze di sicuro guadagnate non onestamente e, non contento di quel che ha, cerca di approfittare della difficile situazione in cui si trova lui, il barone, per sottrargli, pagandolo una miseria, l’ultimo bene che gli sia rimasto, la splendida villa di famiglia? Convintosi, senza neppure troppa fatica, di agire non tanto per legittima difesa personale, ma in nome e per conto di un ordine sociale immutabile ed eterno, il barone mette in opera il suo piano; tutto va a meraviglia e in men che non si dica del curato sparisce ogni traccia e il nobile, riconfortato nello spirito e nel portafoglio (perché davvero prete Cirillo, il religioso, era una specie di Re Mida) può tornare alla sua vita. Non fosse che il cappello dell’uomo di Dio, nuovo di zecca, confezionatogli da un ciabattino desideroso di ripagare, nell’unico modo che aveva a disposizione, il dono di tre numeri ricevuto dal prete, sembra non volerne sapere di seguire il suo proprietario nell’oblio… 

Da qui in avanti non mette conto svelare altro della trama; quel che si vuole sottolineare, tuttavia, è che, fatte le debite differenze con La promessa, non si può non cogliere nelle disavventure del Barone di Santafusca (impegnato a rincorrere un destino sempre un passo avanti a lui) quella stessa realtà di cui siamo vittime e non fautori e che nel bellissimo e implacabile romanzo di Friedrich Dürrenmatt spezza la logica del protagonista di turno (un commissario di polizia prossimo alla pensione) non perché egli sia giunto a conclusioni errate ma per la semplice, terrificante ragione che la verità non basta a se stessa. Proprio come la virtù.

Eccovi, invece dell’incipit, parte della gustosissima descrizione di prete Cirillo, personaggio ben più presente nel romanzo, a dispetto della prematura dipartita, del povero barone di Santafusca. Buona lettura e buone vacanze a tutti. Anche Il Consigliere Letterario si riposerà per un po’. Ci si rivede tra qualche settimana. 

Prete Cirillo era un uomo pieno di denari, che egli aveva radunati un poco coll’usura, prestando ai pizzicagnoli, ai pescivendoli, ai galantini della Sezione, e molto colle vincite al lotto. Si diceva che «u prevete» avesse i numeri e, coll’aiuto di certi calcoli cabalistici trovati da lui su un vecchio libro, vincesse al lotto ogni volta che gli piacesse di vincere.

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