Recensione di “La gran bevuta” di René Daumal
Quali sono i confini di una parola? Un termine tecnico, per il fatto di essere tale e dunque di avere un significato preciso, di essere utilizzabile solo in una determinata maniera, di non potersi declinare (a meno di scomode forzature) in sfumature, di non avere la possibilità di allontanarsi
da se stesso, è più efficace, o per dir meglio più vero, più prossimo alle cose così come sono, di una parola dotata di maggior libertà? E il nostro pensare, il nostro ragionare, in quale lingua pensa? E in quale ragiona? E in quale fantastica? E in quale immagina? E in quale ricorda? Di quante lingue si compone il nostro linguaggio? E come fare a riconoscerle? E come capire in quali e quanti modi si combinino? Domande che paiono bastare a se stesse, poiché a ognuna di loro è quasi impossibile dare una risposta che sia soddisfacente, e che proprio per questo motivo innervano il bellissimo lavoro di René Daumal intitolato La gran bevuta (In Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Bianca Candian). Nel suo libro, che si muove inafferrabile lungo il confine (anch’esso invisibile o quasi) che divide tra loro saggio, romanzo, riflessione personale e meditazione filosofica, Daumal accompagna il lettore nel labirinto di una metafora duplice, quella della sete (di sapere, di conoscenza), la cui unica insoddisfacente soddisfazione non è che una costante ebbrezza che si alimenta di nuove bevute, e quella del sogno, non si sa se alimentato dall’alcool o sprigionato dalla fatica del linguaggio, costretto a saccheggiare se stesso per dare espressione al mondo circostante e in pari tempo indagare il proprio miracoloso potere, la propria terribile onnipotenza, per cercare di capire da dove abbia origine.
Che cosa è necessario per pensare bene, si chiede Daumal, se non parlare bene? Ma cosa può voler dire, esattamente, parlare bene? Trovare le parole esatte che permettano di dire, non quel che si vuole dire ma ciò che si deve esprimere? Ma se così fosse allora il nostro parlare, il nostro pensare, quanto sarebbe realmente nostro? Quanta autonomia avremmo se il fine di ogni discorrere fosse l’aderenza perfetta alla realtà esterna? E se anche fosse questo lo scopo ultimo della lingua, il suo porsi come elettivo strumento di conoscenza del mondo (è vero solo quel che io nomino con esattezza) basterebbe a placare il nostro bisogno di conoscere? Il linguaggio principio e fine di tutte le cose non si dissolverebbe nell’astrattezza del divino? Così scrive, nell’avvertenza che apre il libro, Claudio Rugafiori: “René Daumal cominciò a scrivere La Grande Beuverie a 23 anni, durante un viaggio negli Stati Uniti durato dal novembre 1932 al marzo 1933 […]. In un primo tempo, Daumal intendeva raccontare le proprie esperienze riguardanti il movimento letterario del ‘Grand Jeu’ […]. Ma, in seguito, il progetto iniziale andò modificandosi e lo scopo principale del libro divenne un altro: costruire una sorta di manuale per ‘aiutare a pensare’ che, in forma narrativa, esponesse ‘per via negativa’ diversi procedimenti di pensiero errati, per suggerire poi un modo di pensare che desse all’uomo la speranza di uscire dal proprio circolo vizioso e arrivare a un vero sapere”.
Per via negativa, procedimento filosofico grazie al quale ci si avvicina a quel che non è dicibile, a ciò per cui non sembrano esserci definizioni possibili (ed eccoci così di nuovo al divino); un procedimento che nell’architettura narrativa di Daumal si fa labirinto di stanze e di linguaggi, o se si preferisce di dialetti, ciascuno imprigionato nella propria rete, limitato da quelle stesse regole che sono la condizione di possibilità della sua espressione. Il protagonista, chiuso in una casa-palazzo-ospedale-prigione assieme ad altri, impegnato in una discussione sulla lingua (sulla sua grandezza e sulla parallela debolezza del pensiero, orfano delle parole giuste), a un certo punto lascia il primo consesso nel quale si trova e vaga per una serie di stanze, in ognuna delle quali trova persone legate a doppio filo a un certo modo di parlare, il modo nel quale esprimono quello che fanno, che coincide con quello che sono (un’identità immediata che non a caso ha il suo corrispettivo in alcune particolari forme di alienazione mentale); e così ecco comparire di volta in volta i Sofi, viaggiatori immaginari alla ricerca delle loro dea Sofia, i Fabbricatori di Discorsi Inutili, i Logologi (esplicatori di spiegazioni) e molte altre specie di parlanti. Nell’ininterrotto discorrere che scandisce il fluire del romanzo, il protagonista, e i lettori con lui, compiono un intero giro del mondo senza muovere un passo; in ogni istante sembra che il linguaggio conduca verso mete straordinarie ma subito dopo, a concione conclusa, quel che rimane non è che illusione, o forse la mancata realizzazione di un bisogno, di una necessità: dare al pensiero la voce che gli compete. E nessun’altra. Un traguardo che ben vale, come Parigi una messa, una ricerca lunga una vita.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Io nego che un pensiero chiaro possa essere indicibile. Tuttavia l’apparenza mi contraddice: perché, come vi è una certa intensità di dolore in cui il corpo non è più interessato perché, se ne fosse partecipe sia pure con un singhiozzo, sarebbe, sembra, subito ridotto in cenere, come vi è un culmine in cui il dolore vola con le sue proprie ali, così vi è una certa intensità del pensiero in cui le parole non hanno più parte.
ciao, sei sempre molto profondo nelle tue analisi e questo libro mi sembra che te le abbia stimolate assai…..,.
ciao
un fotografo tuo ammiratore
ciao, sei sempre molto profondo nelle tue analisi e questo libro mi sembra che te le abbia stimolate assai…..,.
forse mi ripeto, come mi dice il computer, ma non trovo altro solo ammirazione per il tuo operato
ciao
un fotografo tuo ammiratore
Ciao Nino, sei sempre gentilissimo. Ti ringrazio tanto e ti mando un abbraccio.