Vai al contenuto
Home » Recensioni » Di Medea qui non c’è traccia

Di Medea qui non c’è traccia


Recensione di “Un giorno perfetto” di Melania G. Mazzucco

recensione - melania g. mazzucco - un giorno perfetto
Melania G. Mazzucco, Un giorno perfetto, Rizzoli

Qual è il significato dell’espressione “troppo amore”? Di più, ha davvero un senso una

simile espressione? Rimanda a qualcosa di comprensibile? Può spiegare qualcosa? Rendere ragione di un’azione, di un comportamento, di una scelta? Acquistate un giornale, sfogliatene le pagine di cronaca, soffermatevi sulle notizie. Cercate in Rete. Ancora una volta orientatevi sulla cronaca. Leggete. Vi capiterà di frequente di imbattervi in autentiche atrocità le cui vittime sono quasi sempre donne (mogli, madri, compagne) e i carnefici uomini (compagni, mariti, padri). La ragione di queste tragedie? Il motivo di questi omicidi, il più delle volte meditati, pianificati, preparati con cura? Il “troppo” amore degli uni (gli uomini) per le altre (le donne), la cui responsabilità, la cui “colpa” (colpa?), è di aver posto fine a una relazione, a un matrimonio. Quell’amore così grande, così forte, così pieno da diventare il suo opposto, da mutarsi in irrefrenabile pulsione di morte. Cosa significa dunque “amare troppo”? Cos’è esattamente questo sentimento che i padri, i mariti, i compagni non riescono più a tollerare nel momento in cui il mondo dov’erano accomodati si spezza? Cos’è di preciso questa passione che impedisce loro di interrogarsi sulla fine di una relazione che immaginavano senza fine, di riflettere sulle loro responsabilità, di accettare la semplice, patente verità che vuole che nulla, nulla ci appartenga mai veramente (non i beni, inerti, che compriamo finché abbiamo la possibilità di farlo e di cui comunque disponiamo solo parzialmente, perché possono andare persi, rompersi prima del tempo, o perché noi, i proprietari, possiamo, d’improvviso, perdere l’interesse che provavamo per loro; e mai, mai le persone, le cui esistenze incrociamo per caso, con cui di continuo ci allacciamo e sciogliamo in quella muta, incessante corrente di fatti che è la vita) e che la sofferenza che inevitabilmente segue la rottura di un rapporto d’amore è per l’appunto qualcosa cui non si può sfuggire? Cos’è questo “troppo” sul quale rigoglioso cresce il velenoso rampicante della vendetta, della morte inflitta con la massima violenza possibile per punire l’altro, l’altra, accusata del peggiore dei peccati: voler decidere da sé cosa fare della propria vita? Cos’è se non una spevantosa mancanza di educazione alla vita stessa? Alla vita come esercizio all’educazione della libertà e della responsabilità che sempre l’accompagna? Alla vita come atto sociale? Alla vita come rispetto, rispetto assoluto, di ogni autoderminazione?

I romanzi, si sa, spesso attingono ai fatti di cronaca, agli intollerabili dolori che affliggono il mondo, e così fa l’intenso Un giorno perfetto di Melania G. Mazzucco (Rizzoli), cupo puzzle di esistenze naufragate in una Roma silenziosa e umbratile, il cui splendore e la cui storia millenaria, trionfale e implacabile, paiono soccombere dinanzi alla banalità feroce di un male capace di inseguire soltanto la patetica illusione di una rivalsa personale. Nel volgere brevissimo e lento – come una scena esaminata al rallentatore, fotogramma dopo fotogramma – di una giornata, il quadro dipinto da Mazzucco irraggia da un centro pulsante, il tormento del poliziotto scelto Antonio, guardia del corpo di un politico le cui fortune pubbliche sembrano sul punto di esaurirsi, un uomo che ha dedicato tutto se stesso alla famiglia, alla moglie amatissima e ai due figli e che di colpo si ritrova vuoto e perso, alle prese con la decisione di quella che era stata la sua donna, sua e soltanto sua, di non voler più sopportare le sue minacce, la sua violenza, la sua soffocasnte gelosia. Antonio non riesce a comprendere come Emma, questo il nome dell’ormai ex moglie, non comprenda che il suo non è altro che amore, un amore assoluto, infinito, perfetto, che può respirare esclusivamente accanto a lei. Come può questa donna non capire che lui deve essere ogni cosa per lei, deve essere letteralmente tutto e dappertutto, deve essere il presente, e il passato anche, anzi soprattutto quello, quello in cui neppure esisteva, nel quale non si conoscevano, quello che avrebbe potuto non farli incontrare mai, e il futuro, perché l’alternativa, ammesso che possa esistere, che la si possa concepire, significa essere nulla? Amare “troppo” allora cosa vuol dire? Vuol dire amare “solo”. Solo e soltanto me. Solo e soltanto alle mie condizioni. Solo e soltanto come voglio io. Nella perfezione che io ho ideato e reso concreta. Nella perfezione di un giorno nel quale altri uomini, altre donne, scoprono l’inutilità dei loro anni, non importa che siano tanti o pochi, o scorgono l’amore, o ancora ingoiano, loro malgrado, l’ennesima delusione, e che lui cotruisce, mattone dopo mattone, come l’ultimo giorno possibile. Quello in cui tornare a essere tutto, o far sì che quel che resta, e di cui non gli può, non gli deve importare perché non ne fa parte, sprofondi nel nulla. In un nulla macchiato di sangue. Sangue di cui, oggi più di ieri, sono intollerabilmente piene le case e le strade l’Italia. Perché i romanzi, che sono bellezza, che sono salvezza, in questo caso non bastano. Non possono più bastare.

Eccovi l’incipit.

Roma si addormenta lentamente, sprofondando nel torpore della notte.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *