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I biondicatori e il cervello di Einstein


Recensione di “Nomadland” di Jessica Bruder

recensione - jessica bruder - nomadland
Jessica Bruder, Nomadland, Clichy

 

“[…] Del resto, milioni di americani lottano con l’impossibilità di un tradizionale stile

di vita borghese. Nelle case di tutto il Paese, i tavoli della cucina sono disseminati di conti da pagare. Le luci rimangono accese fino a tarda notte. Si fanno e rifanno gli stessi calcoli in continuazione, fino allo sfinimento e talvolta alle lacrime. Lo stipendio meno gli scontrini del supermercato. Meno le spese mediche. Meno il conto della carta di credito. Meno le bollette. Meno i prestiti studenteschi e le rate dell’automobile. Meno la voce di spesa più alta di tutte: l’affitto. Nel divario sempre più ampio tra crediti e debiti, persiste una domanda: A quali aspetti della tua vita sei disposto a rinunciare pur di continuare a tirare avanti? Nella maggior parte dei casi le persone che affrontano un dilemma simile non finiscono per vivere in un veicolo. Quelle che lo fanno sono l’equivalente di ciò che i biologi chiamano ‘bioindicatori’: organismi sensibili, capaci di segnalare i cambiamenti profondi di un ecosistema. Alla stregua dei nomadi, milioni di americani si vedono costretti a trasformare la propria vita, anche se i cambiamenti sono apparentemente meno radicali. Ci sono molti modi di interpretare la sfida per la sopravvivenza. Saltare dei pasti questo mese? Andare al pronto soccorso invece che dal medico? Posticipare il pagamento delle carte di credito, sperando di non andare in esazione? Rimandare le bollette di luce e gas, sperando che non ti stacchino il riscaldamento e l’elettricità? Lasciare accumulare gli interessi sui prestiti studenteschi o per l’automobile, nella speranza che un giorno o l’altro troverai un modo per stare al passo? Queste umiliazioni fanno sorgere una domanda ancora più ampia: quando le scelte impossibili cominciano a fare a brandelli le persone… e la società? Sta già succedendo. Quale sia la causa di una matematica familiare così ingestibile da tenere le persone sveglie la notte, non è un segreto. Mettendo a paragone i guadagni medi della popolazione, attualmente l’1% al vertice guadagna ottantuno volte quanto guadagnano quelli in fondo. Per gli americani adulti che si trovano nelle fasce di reddito più basse – circa 117 milioni – le entrate sono rimaste invariate dagli anni Settanta. Non è un divario salariale: è un abisso. E tutti pagano il prezzo di questa disparità crescente. ‘Per qualche ragione, non mi interessano tanto il peso e la circonvoluzione del cervello di Einstein, quanto piuttosto la quasi certezza che persone di uguale talento siano vissute e morte in campi di cotone e condizioni di grave sfruttamento’ riflette il compianto scrittore Stephen Jay Gould. Un divario di classe sempre più profondo rende pressoché impossibile la mobilità sociale. Il risultato è, di fatto, un sistema di caste. Tutto ciò non è solo moralmente sbagliato, è anche uno spreco tremendo. Negare l’accesso alle opportunità a larghi segmenti della popolazione significa buttare al vento ampie riserve di talento e intelligenza. [Ed] è stato dimostrato, tra l’altro, che rallenta la crescita economica“.

Giunti quasi alla fine dello sconvolgente libro-inchiesta Nomadland di Jessica Bruder (In italia pubblicato delle Edizioni Clichy nella traduzione di Giada Diano) la sensazione da cui si viene assaliti ha i contorni grotteschi di un incubo e nel medesidmo tempo l’implacabile solidità del vero, di un dato di fatto cui non è possibile sfuggire. La “cronaca di strada” della giornalista americana, un’immersione nella vita di centinaia di americani (in grande maggioranza oltre i sessant’anni, percettori di pensioni che non consentono loro di mantenere se stessi e una casa in cui vivere e che per questa ragione si sono visti costretti a trasferirsi in camper, furgoni e automobili e a trascinarsi senza sosta da un capo all’altro degli Stati Uniti alla ricerca di occupazioni temporanee, spesso molto impegnative e faticose dal punto di vista dello sforzo fisico richiesto e quasi mai adeguatamente pagate) le cui fila si vanno ingrossando e che quasi per forza d’inerzia – ma anche con sempre maggiore consapevolezza e determinazione – stanno mettendo in discussione “lo stile di vita americano” e il mito non più immarcescibile del “sogno alla portata di tutti”, ricalca in modo impressionante le pagine indimenticabili del capolavoro di John Steinbeck, Furore. Gli uomini, le donne, le famiglie di cui l’autrice narra nel suo lavoro non sono nella sostanza diversi dai fieri componenti della famiglia Joad; ed è questo a lasciare senza fiato, l’inutile trascorrere di un secolo che ha cambiato ogni cosa in superficie senza davvero scalfire nulla di tutto ciò che è essenziale. Gli “Okies”, i poveri dell’Oklahoma (i Joad per l’appunto), che abbandonano ogni cosa e partono alla volta della California nella speranza di un futuro migliore sono infatti in tutto e per tutto, a un secolo di distanza, i nomadi di oggi; le sole differenze tra gli uni e gli altri sono mezzi di trasporto migliori (ma anche quelli dei moderni vagabondi sono di seconda mano e danno spesso più di un problema) e la connessione Internet. Nei fatti, però, è la medesima povertà quella che il quarto stato della Grande Depressione e l’odierno si trovano di fronte, così come identica è la società di cui sono e non sono parte: un insieme anonimo, amorale (non volutamente immorale, bensì incapace di moralità, ignaro d’etica, privo di pensiero critico) che con la stessa indifferenza inghiotte ed espelle individualità a milioni, sordo e cieco rispetto alle evidenti storture (e alle conseguenti tragedie) che lo caratterizzano.

Ma cosa rimane di un tempo che non ha senso, che non lascia dietro di sé, oltre agli anni di cui si spoglia, significato alcuno, che non genera cambiamento? Limitarsi a rispondere nulla, come si è fatto fin qui, potrebbe persino risultare un eccesso di ottimismo. Perché nell’odissea della famiglia Joad a lottare erano generazioni, e a guardare ostinatamente al domani erano non solo vite estenuate dalle umiliazioni e dalla fatica ma esistenze in divenire, che crescevano nei ventri materni come promesse. Nelle pagine di straordinaria intensità (e verità) della Bruder, invece, i “derelitti d’Oklahoma” del nuovo millennio sono in massima parte persone alle soglie della vecchiaia, i cui sacrifici sono stati resi vani da un maldestro lancio di dadi: un improvviso crollo azionario, un fallimento aziendale inatteso, un cortocircuito finanziario inaspettato, cittadini di una nazione che nessuna mappa riporta ma la cui popolazione cresce giorno dopo giorno e i cui anni (senza che nessuno sospettasse alcunché fino al momento in cui la catasfrofe si è verificata) poggiavano sulle sabbie mobili di un’economia divenuta a tutti gli effetti arbitrio, ferina legge del più forte. Così scrive ancora Jessica Bruder: “Il metodo di misurazione maggiormente utilizzato per calcolare la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è una formula che risale a cent’anni fa [ed ecco tornare il secolo trascorso invano, ndr]: il coefficiente di Gini […]. Quello che rivela è allarmante. Oggi negli Stati Uniti c’è una disuguaglianza sociale maggiore che in tutte le nazioni sviluppate. Il livello di disuglianza in America è paragonabile a quello in Russia, In Cina, in Argentina e nella Repubblica Democratica del Congo, devastata dalla guerra”.

Scrivo questa recensione senza ancora aver visto il pluripremiato film tratto da questo libro, la cui lettura, come avrete compreso, più che semplicemente consigliare raccomando. Eccovi l’incipit.

Mentre scrivo, sono sparpagliati in tutto il Paese.

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