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Non con noi è nata la menzogna, non con noi finirà


Recensione di “Agosto 1914” di Aleksandr Solzenitsyn

recensione - aleksandr solzenitsyn - agosto 1914
Aleksandr Solzenitsyn, Agosto 1914, Mondadori

“[…] E nell’ingorgata Neidenburg piena d’ansia egli trovò il

tenente colonnello Dunin, comandante di battaglione del reggimento Estljandskij: quattro sue compagnie, fortemente diradate fin dal giorno precedente si stavano riprendendo, ma il tenente collonnello  non aveva ancora deciso sul da farsi. E, con un altro tenente colonnello, giunsero da nord altre cinque compagnie  dello stesso reggimento Estljandskij, ma compagnie ridotte a tal punto , che ciascuna non era più forte di un plotone […]. A questi due tenenti colonnelli, e alla metà dei comandanti di compagnia che restavano Vorotyntsev spiegò in poche frasi la situazione della città, la situazione dell’armata, il ripiegamento in Russia delle restanti compagnie del loro reggimento insieme con il comandante dello stesso, e che cosa si rendeva necessario da parte di chi invece era restato […]. Entrambi i tenenti colonnelli accettarono  di mettersi agli ordini di Vorontyntsev, ma resero noto che i loro soldati non erano neanche più in grado di reggersi in piedi, grandemente scossi soprattutto dagli obici tedeschi dei quali avevano subito l’attacco senza essere al riparo di trincee […]. Nei due giorni e nelle due notti duranti i quali il loro reggimento era stato macinato, gli scampati erano invecchiati: era comparsa in loro la dignitosa posatezza dei condannati a morte, nessuno si premurava di compiacere ai superiori e ai loro ordini, d’eseguirli nel modo migliore, di sporgere avanti il petto. Nessuna faccia spensierata, né atteggiata a falsa baldanza: là dove essi erano entrati in contatto con la morte, da loro avevano cominciato a cadere come buccia tutti i doveri soldateschi. Ma non s’erano scortecciati al punto che tutti gli ordini avessero cessato d’aver imperio su di loro. Poteva ancora bastare un semplice ordine affinché essi si portassero sulle posizioni, solo che sarebbero scappati subito dopo, mentre occorreva che tenessero tali posizioni. E che cosa si poteva dire adesso a quegli uomini? […]. Non gli si poteva parlare certamente degli ‘impegni d’alleanza’, parole impronunciabili. E chiamarli al sacrificio mortale in nome del batjuska-zar? – questo loro lo capivano, forse avrebbero risposto, per lo zar in quanto tale, figura anonima, astratta, eterna, Ma proprio per Vorotyntsev personalmente non esisteva quello zar anonimo-eterno, ma questo zar, l’attuale, che egli disprezzava, del quale si vergognava – sicché per lui sarebbe stato falso esortarli in nome suo. Dio allora? Il nome di Dio li avrebbe commossi. Ma per Vorotyntsev sarebbe stato inspopportabile, perché sacrilego e falso, pronunciare adesso un’esortazione in nome di Dio, come se per l’Altissimo fosse così importante difendere la città tedesca di Neidenburg contro gli stessi tedeschi. E poi, per qualsiasi soldato, era molto semplice intuire che Dio non poteva essere necessariamente per noi contro i tedeschi; perché li si doveva prendere per simili stupidi? E allora rimaneva – la Russia. La patria. E questa per Vorotyntsev era la verità, lui stesso la intendeva così. Ma capiva altresì, che essi questo non lo capivano poi tanto, che la loro patria non si estendeva poi tanto oltre il distretto, e perciò la sua voce sarebbe stata venata d’incertezza, di insicurezza nella propria ragione, di enfasi ridicola, e ciò non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. E dunque egli non poteva neanche pronunciare la parola patria. Il discorso non veniva fuori“. Si incontra forse qui, poco oltre la metà di un romanzo che conta più di 600 pagine, il senso di Agosto 1914 di Aleksandr Solzenitsyn (Mondadori, traduzione di Pietro Zveteremich), cronaca dettagliata – anche se incompleta; questo libro infatti doveva essere solo la prima parte di un’opera ben più complessa e articolata – della battaglia di Tannemberg, uno dei più importanti scontri della prima guerra mondiale che vide la disfatta delle armate zariste da parte dell’esercito tedesco e in qualche misura segnò il futuro andamento del conflitto per le forze russe, e riflessione dolente e straordinariamente coraggiosa sulla guerra e più ancora sull’intera anima di un popolo chiamato, per tutta la sua esistenza, esclusivamente al sacrificio (abbia esso il volto di uno sconvolgimento bellico mondiale, quello del lavoro bestiale necessario a strappare alla terra, alla nobiltà, alle ingiustizie che attraversano ogni consesso sociale, ogni riunione d’uomini, ogni pratica politica, poco più del necessario per sopravvivere, o ancora quella di un’ingenua fedeltà a un bene non meglio specificato la cui teorica esistenza è destinata a soccombere di fronte al brutale trionfare di un mondo che sembra edificato quasi solo sulla sopraffazione e sulla logica elementare e spietata del più forte).

Qui infatti, a battaglia ormai compromessa, quando l’insensatezza della strategia russa è stata messa a nudo con la massima chiarezza e le responsabilità dello stato maggiore denunciate a più riprese, l’autore dipinge il quadro più fosco e nello stesso tempo dà vita e respiro al più nobile e commosso omaggio alla virtù di tutto ciò che è umano in quanto semplicemente ed essenzialmente umano. Qui, nella quieta e innarrestabile potenza espressiva di una prosa che richiama la spiritualità di Tolstoj senza tuttavia perdere contatto con la materialità drammatica (o per dir meglio tragica, terrificante) degli eventi, ma anzi affondando nella palude di quel che è accaduto, lasciandosi avvincere e vincere dall’inevitabilità del fatto compiuto (la sconfitta ormai irrimediabile), Solzenitsyn mette a confronto la retorica guerresca di generali, colonnelli e alti papaveri per i quali il combattere si risolve (nella stragrande maggioranza dei casi) nel comodo studio di carte militari e nell’altrettanto agevole messa a punto di ordini del giorno che altri saranno chiamati a rendere operativi tramutando ogni parola in massacranti marce forzate da un luogo all’altro (spesso senza il conforto di cibo e acqua), in scontri subiti in drammatica inferiorità numerica, in atti di resistenza di tutta evidenza insensati che avranno come unica conseguenza centinaia e centinaia di morti, con la coscienza aperta e innocente di uomini ai quali fucili, pistole e cannoni fanno l’effetto di una lingua incomprensibile mai udita prima. Questi uomini, legati ai fiumi, alle montagne, all’erba che a dismisura cresce nei luoghi che hanno da sempre chiamato casa, patria, sono stati costretti ad abbandonare la vita che è stata loro per generazioni, quella contadina, regolata dalla ciclicità eterna del volgere delle stagioni, per qualcosa che non hanno cercato e non sono in grado (né intendono) comprendere, e tuttavia lo hanno fatto, obbedienti, fieri, orgogliosi. Si sono affidati a una guida esterna, a quello zar per diritto divino che della Russia è padre e madre (la qual cosa lo rende padre e madre di ognuno di loro), ed egli, lo zar, a sua volta ha nominato generali e colonnelli e comandanti di corpi d’armata cui questi uomini dovevano la medesima fedeltà cieca che andava tributata allo zar. Così tutto sarebbe stato secondo la vololtà di Dio. Per il bene supremo della patria. E di colui che la conduceva. Ma una volta che tutti questi legami, contrabbandati come qualcosa di vero, di autentico, si fossero spezzati; una volta verificato che coloro che avrebbero dovuto guidare il popolo, del popolo avevano fatto strage senza minimamente sentirsi responsabili dei propri terribili errori, cosa fare? Che dire?

Nel personaggio del colonnello Vorotyntsev, ufficiale dello stato maggiore inviato dalle sicure retrovie nel pieno della battaglia per studiare da vicino cosa stesse succedendo e tornare a riferirlo, nella sua trasformazione (tolstojana, ancora una volta) da “militare” a uomo tra i tanti, incapace di trovare parole in grado di motivare soldati reduci da sconfitte una più dura dell’altra, Aleksandr Solzenitsyn svela la condizione dell’esistenza di ciascuno, quando le elaborate finzioni del “dovere” che in realtà non sono che le odiose imposizioni della schiavitù non hanno più modo di nascondersi e tutto quel che resta, nella guerra e oltre la guerra nella vita, non è lo stridulo, isterico vociare dell’ordine cui non è consentito disobbedire ma il richiamo disilluso (e per questa ragione vero, per questa ragione solidale) della confessione: “Ecco, così: non ordinò, non minacciò – spiegò. E i volti cupi, poco accessibili alla persuasione – a un tratto s’illuminarono tutti di comprensione, di partecipazione, quasi di sorrisi di compassione, come se vedessero un uccellino abbattuto – eppure non avevano voglia! e le gambe rifiutavano di muoversi così come si muovevano prima, e maledetto era il ritorno! – eppure risposero non con parole intere, non con esclamazioni di consenso, ricordando d’essere allineati, ma con un indistinto caldo muggito, con un brontolio benevolo”.

Eccovi l’incipit, buona lettura.

Partirono dalla stanitsa in un trasparente mattino dorato dall’aurora, e al primo sole tutta la Catena Centrale, d’un fulgido biancore interrotto da solchi bluastri, appariva vicina e accessibile, visibile in ogni sua fenditura, talmente vicina che una persona ignara avrebbe creduto di poterla raggiungere in un paio d’ore.

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