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Una maschera, mille volti, nessun uomo


Recensione di “Mephisto” di Klaus Mann

recensione - klaus mann - mephisto
Klaus Mann, Mephisto, Feltrinelli

Spinto fino al parossismo e all’ossessione, o al contrario utilizzato con freddo e calcolato

distacco, considerato null’altro che un utile (anzi indispensabile) strumento grazie al quale ottenere ogni scopo che ci si prefigge, il mestiere dell’attore, il suo significato, e ancor più in profondità la sua essenza ultima, quella sorta di potere magico che permette, a colui che sul palcoscenico è tutti e nessuno, di mutar se stesso (o meglio il se stesso che egli presenta al pubblico, dunque ancora una volta una maschera) al mutar degli spettacoli rappresentati ma soprattutto all’alternarsi dei rivolgimenti politico-sociali, è il cuore del tragico, potente romanzo Mephisto di Klaus Mann (Feltrinelli, traduzione di Fulvio Ferrari e Marco Zapparoli), figlio primogenito del grande autore de I Buddenbrook e Doctor Faustus. Due sono i protagonisti del lavoro di Mann, attraversato dal dolore e dall’umiliazione di un’esperienza personale, Hendrik Höfgen – ricalcato sulla figura realmente esistita di Gustav Gründgens – uomo di teatro di indubbio talento, per il quale la recitazione è vita, ma al tempo stesso uomo quasi del tutto privo di umanità, consumato dalla paura e dalla vigliaccheria, terrorizzato dall’idea di schierarsi, di prendere una posizione, di dichiarare cosa possa dirsi, secondo il proprio metro di giudizio, giusto e ingiusto perché non è mai possibile sapere con certezza cosa accadrà domani (specie nella Germania prossima a precipitare nelle tenebre della dittatura nazionalsocialista; ed è proprio la Germania, lacerata, dilaniata dalle lotte intestine tra partiti, carica di rabbia, di ansia di vendetta, avvelenata dalle menzogne, insanguinata da ferocissime lotte per il potere, l’altro protagonista di Mephisto, quasi un alter ego di Höfgen per buona parte del libro e in seguito, a trionfo hitleriano compiuto, la più fedele degli alleati e la prima tra gli ammiratori) ed è perciò necessario non inimicarsi mai nessuno, in modo che tutti, nel momento necessario, possano ricordarsi con favore dell’attore garantendogli un’esistenza tranquilla e agiata. A proposito di questi poli opposti di Mephisto, di questi antipodi che, a incubo compiuto, a tirannia saldamente installata al potere, finiscono dapprima per congiungersi per poi arrivare a fondersi, a farsi tutt’uno, con Höfgen volto e voce della nazione rinascente in qualche misura al pari di Hitler, a tutti gli effetti incarnazione della nuova Germania e del suo popolo finalmente “risvegliato”, così scrive Goffredo Fofi nella prefazione al volume: “Quello che Mann ci racconta […] è un uomo di teatro, un attore, che per la sua professione è sottoposto – come tanti artisti – ai ricatti del potere, senza il cui favore non potrebbe esprimersi e aver fama, ma che, diversamente dagli altri artisti, ha in questo attore la duttilità, il piacere del ‘gioco’, della recita, dell’incarnazione di personaggi diversi e contrastanti […]. Molti hanno tentato di analizzare la particolare psicologia dell’attore – che è uno, nessuno e centomila, e che a forza di essere tanti non sa più chi è oppure, non sapendo chi è, si rappresenta in tanti – […]. Mann ne è cosciente, ed è affascinato dalla figura dell’attore, dal mondo della recita […]. Affascinato e insieme disgustato dalla amoralità che ne può conseguire, dal narcisismo dell’attore e dalle sue conseguenze opportunistiche, particolarmente gravi quando il potere non è un potere democratico e ‘normale’ […]. Quando il potere è un potere dittatoriale […]. La grande creazione manniana […] è sorretta da una altrettanto grande capacità di rappresentare il mondo che sta intorno a Höfgen, dapprima quello del teatro, degli attori, delle attrici […], degli impresari, e più latamente quello degli intellettuali, di altri tipi di artisti, e infine quello dei potenti. Qui Klaus Mann coglie nel segno di una rappresentazione veridica e precisa dei riti mondani di un particolare potere, quello del nazismo, e il modo in cui nel 1936 [anno di pubblicazione del romanzo, n.d.r.] descrive Göring e Goebbels è perfetto, li fissa in eterno e si direbbe che chiunque altro, storico o letterato o cineasta, abbia voluto tornarvi, non sia riuscito a prescinderne, a distaccarsi da questa perfetta e definitiva rappresentazione della loro diabolica astuzia di politici e dalla volgarità di ‘nuova classe’, spregiudicata e oscena quanto quella coeva della Mosca di Stalin… o della Roma di Mussolini“.

La storia narrata in Mephisto è la cronaca dolorosa e impotente (ma spaventosamente lucida) di una tragedia inarrestabile e imminente; è la descrizione minuziosa e sofferta del precipitare nell’abisso di un popolo (che con sé, nelle tenebre, finirà per trascinare il mondo) raccontata a un tempo con sguardo attento e viva intelligenza di testimone e con il colpevole, disumano opportunismo di chi, non riuscendo ad avere occhi che per se stesso, può senza rimorso fingersi cieco dinanzi a tutto il resto.

Eccovi l’ncipit. Buona lettura.

“Sembra che ultimamente in un centro industriale della Germania occidentale siano stati condannati più di ottocento lavoratori in un unico processo, e tutti a elevate pene detentive”.

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