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Un puzzle impossibile da ricostruire


Recensione di “Tutto quello che non ricordo” di Jonas Hassen Khemiri

recensione - jonas hassen khemiri - tutto quello che non ricordo
Jonas Hassen Khemiri, Tutto quello che non ricordo, Iperborea

Quante vite può vivere una persona? Probabilmente tante quante sono le idee (o le

immagini, le interpretazioni, le fantasie) che di quell’unica vita hanno tutti coloro che in qualche misura l’hanno conosciuta, che ne hanno fatto parte, nella quale sono stati coinvolti. Ma quante, tra tutte queste vite costruite a partire da quell’unica vita, quante di queste “eccentriche copie dell’originale”, inevitabilmente viziate da ogni genere di pregiudizi (che altro non sono se non personali, singole, irriducibili visioni del mondo, o meglio del “resto del mondo, di tutto quel mondo “che non sono io”), rispecchiano, riproducono, al modo di una fotografia, quella vita specifica? Quante, in una parola, la rappresentano davvero? Nessuna. Perché nessuna di queste varianti, per quanto prossima a ciò che intende narrare, o forse addirittura spiegare, ha legami, legami autentici con l’oggetto della propria speculazione. Così, l’illustrazione di una vita da parte di tutti coloro che quella vita non l’hanno vissuta si riduce a qualcosa di molto simile al nulla, all’evanescenza; un cumulo di parole che solo in apparenza hanno un senso e conducono da qualche parte, ma che in realtà hanno la medesima consistenza, la medesima profondità, il medesimo senso di un discorso fatto in una lingua inventata, una lingua nella quale non esista corrispondenza alcuna tra suono e realtà. Eppure è proprio questo discorso impossibile (almeno in apparenza) il cuore di Tutto quello che non ricordo, splendido romanzo-puzzle di Jonas Hassen Khemiri (Iperborea, traduzione di Alessandro Bassini) al cui centro – e in pari tempo ai margini – si staglia, senza mai venir perfettamente inquadrata, la figura del giovane Samuel, per certi versi una specie di alter ego dell’autore (svedese per parte di madre, tunisino dal lato paterno), il quale si muove a disagio in una Stoccolma il cui respiro aperto, tollerante e democratico non è affatto così ampio e regolare come ci si aspetterebbe. Svedese e allo stesso tempo straniero nel proprio Paese (per una pura questione razziale, esplicitata a più riprese) Samuel è un enigma che non si riesce a decifrare, perché ogni cosa che di lui si crede di sapere non la si sa veramente.

Samuel infatti è morto, è questo il passo d’avvio del romanzo, la sua morte avvenuta forse per deliberato suicidio, forse per una tragica fatalità (l’auto che guidava è finita a forte velocità contro un albero), e tutto quel che resta, allo scrittore (che è anche uno dei personaggi della storia, la cui voce si unisce alle altre), all’amico e coinquilino che si sforza di dipingerlo nel modo più onesto e oggettivo possibile, all’ex fidanzata cui non è stata sufficiente una storia d’amore che sembrava destinata a non appassire mai, a vivere indefinitamente nella perfezione intatta del primo giorno, all’amica artista che potrebbe essere stata l’amore taciuto di Samuel, magari il suo rimpianto più grande, e non ultimo alla madre e alla famiglia di Samuel, che sembrano accorgersi di lui quando è ormai troppo tardi, non sono che cumuli di parole capaci solo di sotterrare le une le altre, come le palate di terra che si gettano sulla bara calata nella fossa, finché tra la bara e la superficie su cui i vivi continueranno a camminare non si stata eretta la necessaria barriera di sicurezza.

Opera dal significato volutamente complesso, labirintica (ma non certo ardua quanto a lettura) nella costruzione, vivificata da una prosa potente, spietata per chiarezza e radicalità, dove la sola che conti davvero è restituire, nella loro nudità non importa quanto spaventosa, tutte le verità che si possono raggiungere, che il linguaggio, se può dire, ha l’assoluto dovere di dire, Tutto quello che non ricordo è un romanzo che si legge d’un fiato, limpido e coraggioso, la cui trama è una tela di ragno, una prigione da cui non si può fuggire, un infittirsi di domande per le quali non c’è risposta ma che la vita, qualsiasi vita, impone, e che vanno guardate negli occhi.

Eccovi l’incipit.

La testa del vicino sbuca da dietro la siepe e mi chiede chi sono e cosa ci faccio lì.

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