Vai al contenuto
Home » Recensioni » Giallo » Sulla scivolosa scacchiera del caso

Sulla scivolosa scacchiera del caso

Recensione di “L’uomo che sorrideva” di Henning Mankell

Henning Mankell, L'uomo che sorrideva, Marsilio
Henning Mankell, L’uomo che sorrideva, Marsilio

Il tormento e l’angoscia da una parte, la pressoché totale assenza di emozioni dall’altra. L’istinto da un lato, il freddo calcolo dall’altro. L’intuizione in un angolo e a quello opposto una meticolosa pianificazione. Una sorta di genialità incostante e un’intelligenza acuta e ordinata a sfidarsi lungo il piano inclinato della vita, sulla scivolosa scacchiera del caso. L’uomo che sorrideva di Henning Mankell, quarta avventura della serie che ha per protagonista il commissario della polizia di Ystad Kurt Wallander, ha nel “fattore umano”, nel finissimo disegno psicologico dei caratteri, tanto la propria chiave di lettura quanto il proprio fondamento.


Nel prendere le mosse da quanto narrato nel precedente romanzo (La leonessa bianca, di cui ho già scritto in questo blog), o per dir meglio dalle conseguenze scaturite da ciò che è stato raccontato, Mankell fissa fin da subito l’attenzione sulle persone, sui protagonisti del suo dramma, e lascia che l’azione si sviluppi in sottofondo, in una sorta di chiaroscuro, e di volta in volta emerga, o si faccia più indistinta, a seconda di quel che gli attori in quel momento al centro della scena decidano di fare. Così, anche se la vicenda si apre con un omicidio, un agguato brutale consumato lungo una strada in una notte di nebbia, anche se a colpire l’immaginazione del lettore è l’agghiacciante atmosfera di terrore che lo scrittore svedese magistralmente riesce a costruire in poche righe – […] la nebbia è come un animale da preda che si muove silenziosamente […]. Presto fu costretto ad azionare il tergicristallo per eliminare la patina di umidità dal parabrezza. Odiava guidare quando era buio. Il riflesso dei fari sull’asfalto non gli permetteva di distinguere le lepri che continuavano a tagliargli la strada. Gli era capitato di investire una lepre una sola volta […]. Ricordava ancora il movimento istintivo e inutile del suo piede sul pedale del freno e subito dopo il colpo sordo contro la lamiera […]. La lepre era stesa sull’asfalto con le zampe posteriori che si muovevano spasmodicamente. Il torso era paralizzato e la lepre continuava a tenere gli occhi fissi su di lui […]. Non aveva mai dimenticato gli occhi della lepre e il movimento delle zampe […]. Si accorse che istintivamente alzava lo sguardo sempre più spesso verso lo specchietto retrovisore […]. Lo specchietto retrovisore continuava a rimanere buio […]. La nebbia era sempre più fitta” – quel che succede non è che qualcosa di estrinseco, una necessaria causa scatenante in forza della quale gli opposti rappresentati da Kurt Wallander e dal suo antagonista, un uomo di cui nessuno sa nulla se non il nome, Alfred Harderberg, ricchissimo ed enigmatico, un uomo d’affari di successo che abita un meraviglioso castello e le cui attività, all’apparenza più che oneste, sono invece crimini inauditi, possano affrontarsi.

Superate le primissime pagine, dunque, L’uomo che sorrideva da giallo classico (di cui comunque conserva, fino al tesissimo finale, l’architettura) diviene dramma psicologico; Wallander, in piena crisi esistenziale e intenzionato a lasciare per sempre la polizia e l’imperscrutabile burattinaio Harderberg, chiuso nel proprio favoloso castello e deciso a portare a compimento a ogni costo i propri affari illeciti, ciascuno senza conoscere nulla dell’altro sembrano muovere gli eventi affinché una loro collisione finisca per essere inevitabile.

Wallander, sconvolto dall’uccisione di un suo caro amico (un avvocato, che lo aveva contattato per chiedergli, senza successo, di indagare sulla morte della padre, una tragedia rubricata forse con troppa fretta come incidente), che decide di rinunciare alle dimissioni e torna al proprio lavoro ma non per questo cessa di essere un uomo prossimo alla deriva, assediato da rabbia e sensi di colpa e ossessionato dal ricordo lieve e insieme doloroso di una donna (Baiba Liepa, personaggio che nella saga di Mankell compare per la prima nel secondo romanzo della serie, I cani di Riga, anch’esso recensito qui), si getta anima e corpo nell’indagine sul delitto e poco alla volta capisce che, per smascherare il colpevole, dovrà accettare di confrontarsi con un uomo che ha fatto della più severa riservatezza una delle sue armi migliori, una persona capace di commettere le peggiori nefandezze senza mai sporcarsi le mani. E quando, finalmente, i due si incontrano, non sorprende che l’uno si confessi all’altro, che il glaciale Alfred Harderberg, noto al mondo come imprenditore e filantropo si dichiari, dinanzi a Wallader, colpevole delle accuse che gli vengono mosse, che il mistero si sveli senza difficoltà, perché quel che i complotti e gli omicidi narrati nel corso di tutto il romanzo hanno rappresentato non è stato altro che lo scontrarsi di due nature, di due archetipi incarnati, nel brevissimo volgere di una vita, in altrettanti uomini, un poliziotto fragile e tenace e un delinquente del tutto privo di scrupoli. “Non credevo che esistessero persone come lei […]. Adesso lei sta mentendo commissario […]. Lei lo sapeva e lo sa perfettamente”.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Marsilio, è di Giorgio Puleo. Buona lettura.

La nebbia. La nebbia è come un animale da preda che si muove silenziosamente, pensò. Non riuscirò mai ad abituarmi. E questo anche se ho vissuto tutta la mia vita nella Scania dove la nebbia circonda costantemente le persone e le rende invisibili.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *