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Nel Lower East Side


Recensione di “La vita facile” di Richard Price

recensione - richard price - la vita facile
Richard Price, La vita facile, Neri Pozza

Sentirsi all’inferno non significa affatto esserci davvero. A scoprirlo, al termine di una notte trascorsa tra chiacchiere (superflue) e bevute (eccessive) in compagnia di due compagni quasi occasionali – un collega appena conosciuto e un amico di quest’ultimo –

è Eric Cash, direttore di un ristorante nel Lower East Side di New York la cui segreta ambizione è diventare scrittore. Eric, che durante le ore di lavoro è il capo di Ike Marcus, assunto da poco come cameriere, viene in qualche modo soggiogato dalla personalità del giovane, dalla sua contagiosa esuberanza, dallo sterminato orizzonte dei suoi sogni, che Ike riesce senza difficoltà a far sembrare così a portata di mano, quasi fossero frutti in attesa soltanto di essere colti, ma ben presto quella sorta di ammirata simpatia che il lavorante era stato capace di suscitare in lui muta in un rancore sordo, e il rancore inacidisce fino a farsi odio. Odio non per Ike, forse, non per la sua persona, ma per ciò che egli sembra rappresentare: la speranza di farcela, di riuscire, di giungere al traguardo, anzi più della speranza (perché la speranza, quella l’ha coltivata anche lui in passato, prima di arrendersi), il diritto di arrivare a tutto questo, la pretesa del successo. Così, nella notte in cui alcol e discorsi finiscono per superare abbondantemente il livello di guardia e di sopportazione, il tentativo di rapina che il gruppo subisce per opera di due balordi di strada e che termina in tragedia nel momento in cui Ike, a differenza di Eric e del suo amico, troppo sbronzo anche solo per capire quel che sta davvero accadendo, rifiuta di consegnare portafoglio e orologio e si avvicina spavaldo alla coppia beccandosi una pallottola che lo uccide sul colpo, quel che Eric pensa, mentre fugge dalla sparatoria con il cellulare in mano con l’intenzione di mettersi al riparo e chiamare la polizia, quel che prova senza averne coscienza, è che Ike, il cameriere di successo, Ike il poeta, Ike l’attore, quell’Ike così unico e affascinante da riuscire a conquistare chiunque, quell’Ike pronto a prendersi il mondo si sia meritato di morire. Forse è a causa di questo pensiero, di questo tarlo che non percepisce ma che pure lo consuma che Richard, sentito dagli investigatori che si occupano del caso dapprima in qualità di testimone, poi come indiziato e infine giudicato, anche a causa delle dichiarazioni di alcuni testimoni oculari (poi sfortunatamente rivelatisi tutt’altro che attendibili) colpevole di omicidio, asserisce di aver provato a più riprese a chiamare gli agenti con il suo telefono (mentre in realtà non l’ha fatto) e, cosa ancor più grave, dimentica, per tutta la durata dell’interrogatorio, di chiedere come stia Ike (lui è scappato, ignora che il suo compagno sia morto sul colpo, ma i poliziotti pensano che non domandi nulla perché se è stato lui a sparare è ovvio che sa che il suo compagno è morto. Perché informarsi, dunque?). Di fronte a lui, a condurre l’inchiesta, uno sbrirro irlandese rotto a ogni esperienza, un uomo duro tanto quanto Eric è fragile, un poliziotto che malgrado tutto crede nel proprio lavoro, un piedipiatti che nonostante New York, nonostante Manhattan, nonostante un quartiere dilaniato dalla povertà, dall’emarginazione, dalla violenza, nonostante una città in piena decadenza, nonostante una nazione che ha da tempo smarrito se stessa e avanza cieca nel labirinto di un mondo irriconoscibile e stravolto, nonostante una famiglia a pezzi, un divorzio carico di infelicità e recriminazioni e due figli (uno dei quali poliziotto) che lo ignorano e si dilettano con lo spaccio, nutre ancora in sé un’idea di giustizia e a tutti i costi, a tutti i costi vuole catturare l’omicida, specie dopo aver ingiustamente accusato Eric e avergli fatto assaggiare, seppur per un tempo brevissimo, i rigori della custodia in prigione.   

Questo lo scenario di La vita facile, travolgente romanzo di Richard Price sempre sospeso tra i toni cupi del dramma, quelli leggeri ma assai amari della commedia (nera e di costume) e quelli disincantati della disamina sociologica. Nel dare vita a un angolo di New York che somiglia al relitto di una nave alla deriva, che richiama l’incurabile solitudine di una terra desolata estranea ai suoi stessi abitanti, che a più riprese la osservano silenziosi, sforzandosi di metterla a fuoco, di trovare, in quel disordine di acciaio, cemento e miseria, un tratto familiare, una scintilla di vita, lo scrittore e sceneggiatore americano si affida alla forza dirompente delle scene dialogiche, alle battute fulminanti dalle quali i personaggi dapprima prendono vita e poi vengono caratterizzati, all’impetuoso scorrere della lingua, creatura multiforme e inafferrabile che dall’aggressiva cantilena dello slang di strada scivola al consumato copione fatto di blandizie e minacce dei detective, coagula nel cortocircuito di dolore della famiglia di Ike (il padre in particolar modo) per poi frangersi nei mille rivoli delle conversazioni di tutti i giorni, frammenti di specchio di una realtà che non lascia scampo.   

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Neri Pozza, è di Stefano Bortolussi. Buona lettura.

La Squadra Speciale Qualità della Vita: quattro felpe in un finto taxi fermo all’angolo di Clinton Street lungo la rampa del ponte di Williamsburg per sorvegliare la risalita dei salmoni.

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