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T4


Recensione di “Il piccolo Adolf non aveva le ciglia” di Helga Schneider

recensione - il piccolo adolf non aveva le ciglia - helga schneider
Helga Schneider, Il piccolo Adolf non aveva le ciglia, Rizzoli

“Ancor prima del 1939, al Ministero degli Interni del Terzo Reich venne considerata la

possibilità di ridurre drasticamente ai pazienti degli ospedali psichiatrici le quote alimentari in caso di guerra, favorendo così la loro morte per inedia. La soppressione dei pazienti con problemi psichici cominciò subito dopo la capitolazione delle truppe polacche a cui sarebbe seguita la divisione della Polonia tra il Reich e l’Unione Sovietica. Il primo luogo in cui si instaurò un programma di eutanasia fu una clinica presso Bromberg che, in poco più di un mese, avrebbe registrato 2342 vittime. Altri 1350 degenti furono uccisi da uomini delle SS a Schwetz, sempre nella provincia di Bromberg. La pratica dell’eutanasia iniziò quindi nella Polonia occupata, prima ancora che Hitler firmasse alcuna autorizzazione. Già all’inizio di ottobre del 1939 un’ordinanza emessa dal Ministero degli Interni del Württemberg aveva decretato la confisca del castello di Grafeneck in cui una fondazione di Samaritani gestiva un ricovero per inabili psichici. Fu ordinato di liberare l’istituto da pazienti e personale entro il 14 ottobre. Scopo dell’esproprio era il progetto di trasformare Grafeneck in una struttura di sterminio per ‘liberare la Germania dai pesi morti della nazione’. Contemporaneamente iniziò presso l’ospedale di Oswinka la soppressione di oltre mille malati di mente […]. Nell’aprile del 1940 la Centrale per l’eutanasia berlinese venne allargata organizzativamente e logisticamente. Gran parte dell’amministrazione fu spostata in una villa a Berlin-Charlottenburg nella Tiergartenstrasse 4, e da quel momento il programma di eutanasia nazista fu chiamato in codice ‘T4’. Tuttavia la progettazione e l’esecuzione della ‘T4’ rimase prerogativa dell’Ufficio Centrale sezione II della Cancelleria del Führer […]. La pratica dell’eutanasia infantile iniziò alla fine dell’ottobre del 1939 in un reparto pediatrico dell’istituto Görden- Brandeburgo presso Berlino. Nell’ambito dell”evacuazione’ di interi complessi pediatrici i bambini finirono in numero altissimo nelle camere a gas, se prima non erano già stati eliminati tramite terapie a base di farmaci tossici ad alto dosaggio, come avvenne a Görden. La nascita di un bambino malformato o affetto da malattia genetica doveva essere segnalata, dal medico o dalla levatrice, agli organismi competenti che avrebbero provveduto a convincere i genitori a far ricoverare il neonato in una ‘struttura specializzata’ dove sarebbe stato sottoposto a ‘cure risolutive d’avanguardia’ […]. Con una circolare si raccomandava che la soppressione dei neonati avvenisse nel tempo più breve possibile , evitando ogni contatto con le madri. I genitori di neonati malformati o colpiti da malattie genetiche venivano metodicamente ingannati sulla fine dei loro veri figli”. Si chiude con questa agghiacciante nota dell’autrice (Helga Schneider, tedesca naturalizzata italiana) il romanzo Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (Rizzoli), cupo resoconto di un’esistenza stravolta dall’orrore; diario, memoria, quaderno di doglianza di una donna, di una madre derubata di se stessa”.

Grete, questo il nome della protagonista del libro della Schneider, è una ragazza della media borghesia tedesca. La sua vita, come del resto quella di milioni di altri, cambia nel momento in cui Adolf Hitler prende il potere. Il padre di Grete, infatti, convinto nazionalsocialista (a differenza della moglie, che fin dal principio nutre un’invincibile avversione nei confronti del Führer) riesce a persuadere la figlia della bontà delle sue idee politiche, facendo di lei prima una solerte, efficientissima impiegata della Gestapo e in seguito la moglie devota e innamorata di un alto ufficiale delle SS, stretto collaboratore di Himmler. La vita in apparenza idilliaca di Grete, tuttavia, è destinata a mutarsi nel suo opposto non appena la donna rimane incinta del suo primo figlio; essere madri fertili, nella Germania nazista, è un dovere; dare figli alla Patria, così che possano essere sacrificati al fronte in guerre che sono vitali per il Paese e che Hitler combatte solo perché non può farne a meno, è un imperativo cui non è consentito sottrarsi, perciò, non appena la notizia della gravidanza si sparge, la felicità è grande nel cerchio familiare di Grete. A essere al settimo cielo sono soprattutto i genitori del marito, nazisti della primissima ora, tanto fedeli e grati alla loro guida da decidere che quel figlio, il figlio del Reich, si dovrà chiamare Adolf. Della gioia provata, come dell’incubo in cui precipita quando, a parto avvenuto, le viene comunicato che il bambino “non sta bene”, “ha un difetto” e dovrà essere curato “in una struttura specializzata e all’avanguardia”, Grete racconta in una sorta di diario, guardando gli eventi accaduti da un doppio binario temporale: quello dato dal mero scorrere del tempo cronologico (il romanzo si apre nella seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, con Grete ormai molto anziana – siamo alla vigilia del suo ottantesimo compleanno – circondata dall’amore del marito, confortata dalla presenza dei figli, dei nipoti, degli amici di lunga data) e quello sempre presente, incalzante, incancellabile della memoria delle atrocità subite, che la costringe a rivivere situazioni che nulla potrà mai cancellare.

Di fronte alla malattia del figlio, e all’irremovibile decisione del marito di “farlo curare”, Grete è costretta a cedere, ma solo per scoprire poco tempo dopo che la clinica nella quale il neonato è stato ricoverato non è che uno dei numerosi centri di sistematico sterminio dei “cittadini inutili alla nazione” attraverso i quali il Reich mette in atto il proprio programma di purezza razziale. Il ritrovamento del figlio scatena l’ira del coniuge (che senza riserve approva il piano eugenetico del Reich), che non riesce a perdonare alla donna i suoi scrupoli, la sua debolezza, e che soprattutto non accetta che lei possa amare (amarla al punto da desiderare che viva) una creatura imperfetta, sbagliata, fonte per lui di enorme imbarazzo. Così dinanzi a Grete si spalancano le porte di un istituto di igiene mentale, una prigione mascherata da ospedale nella quale, tramortita dai farmaci, non dovrà fare altro che attendere la propria fine, l’inserimento del suo nome nel programma di elimazione dei soggetti “non degni di stare al mondo”. Poco importa che nelle descrizione delle sofferenze patite da Grete il romanzo manchi di vigore, che la scrittura, stravolta dall’indignazione, trasformi i personaggi in una fin troppo semplificata incarnazione delle loro idee (granitici nel male i nazisti, moralmente ineccepibili tutti coloro che a essi si oppongono; nessuna sfumatura è concessa), che l’intera vicenda, a tratti, fatichi a mantenere la necessaria coerenza interna, perché questi evidenti difetti letterari, questi inciampi, non sono che singhiozzi che interrompono uno sfogo, urla che spezzano l’attonito silenzio di uno shock, tentennamenti di una verità così sconvolgente da rifiutare di dirsi tale

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura. 

Una cappa di nubi, solcate da sinistre striature, annuncia un imminente temporale. L’asfalto del viale è ancora asciutto e polveroso, di tanto in tanto l’automobile salta su una delle numerose buche scavate dai veicoli militari.

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