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Nell’oscurità di Nathan e Richard


Recensione di “Compulsion” di Meyer Levin

recensione - meyer levin - compulsion
Meyer Levin, Compulsione, Adelphi

 

“Prima di A sangue freddo, prima del Canto del boia, fu Compulsion di Meyer Levin l’alfiere di

quello che chiamiamo romanzo-verità. Lo lessi per la prima volta a otto anni. Avevo trovato su un comodino un’edizione economica ingiallita dagli anni. Non avevo la capacità di comprendere la profondità della narrazione e riconoscere la bellezza della prosa, ma fu un’esperienza indelebile. Da quel giorno non avrei mai smesso di pensarci. Rileggendolo oggi, resto di nuovo meravigliata dal talento di Levin e dagli aspetti suggestivi e senza tempo del caso di Nathan Leopold e Richard Loeb. Per chi non sia esperto di cronaca nera, Compulsion racconta la storia di due rampolli di famiglie multimilionarie che nel 1924, quando avevano l’uno diciannove e l’altro diciotto anni, rapirono e assassinarono un quattordicenne soltanto (a quanto pareva) per vedere che effetto faceva, per dimostrare di esserne capaci. La vittima, Robert Franks, era figlio di una famiglia non meno facoltosa che apparteneva al loro stesso ambiente. Leopold e Loeb decisero di chiedere un riscatto molto basso, diecimila dollari, perché sapevano che il padre del rapito l’avrebbe pagato senza problemi. Benché avessero pianificato il delitto per quasi un anno, questi due giovani intelligentissimi – uno dei quali (Loeb) era anche un lettore ossessivo di racconti polizieschi ispirati a casi di cronaca nera – commisero errori così marchiani nel coprire le loro tracce da far sorgere in qualcuno il sospetto che volessero essere scoperti. Noleggiarono l’auto a bordo della quale assassinarono la vittima, ma non la ripulirono da tutte le macchie di sangue. La parcheggiarono davanti alla casa di Leopold, dove fu notata dall’autista della famiglia. Redassero la richiesta di riscatto con la macchina da scrivere portatile di Leopold, che fu facilmente identificata dai suoi compagni di scuola. Leopold, inoltre, perse gli occhiali nelle immediate vicinanze del luogo in cui fu rivenuto il cadavere. Nonostante questi clamorosi sbagli, la polizia continuò a puntare la propria attenzione su tutti tranne che sui veri colpevoli, ignorando fino al triste epilogo la soluzione logica più evidente. Le ultime persone di cui gli investigatori – o chiunque altro – ritennero di dover sospettare erano i figli di due agiatissime famiglie del South Side di Chicago […]. L’impressione suscitata da questo delitto credo derivi dal fatto che, diversamente dalla stragrande maggioranza dei casi, il suo movente non rientra in alcune delle categorie abituali. Leopold e Loeb non erano serial killer, e il loro crimine non è dovuto a motivi passionali o economici né a desiderio di vendetta. Quando i due adolescenti furono arrestati e accusati dell’omicidio questa anomalia divenne l’elemento cruciale del caso. Non c’erano dubbi sulla colpevolezza, dato che i due giovani avevano confessato e le prove e le prove contro di loro erano schiaccianti […]. Leopold e Loeb affermarono che il delitto era stato un esercizio intellettuale, per dimostrare che loro erano l’incarnazione vivente dell’Übermensch, il superuomo descritto di Friedrich Nietzsche, così superiore al ‘gregge’ da non essere soggetto alle leggi comuni. Neanche questo, però, come Meyer Levin dimostra nel suo sconvolgente romanzo, può essere considerato il vero movente, e l’illuminante esame condotto dall’autore conduce alla scoperta di alcune delle reali e più complesse ragioni alla base del delitto. Proprio l’esplorazione dei possibili moventi reali costituisce il Leitmotiv della narrazione e offre qualche elemento per comprendere il complesso enigma rappresentato dalla psiche contorta e malata che indusse i due giovani a commettere il delitto […]. Uno dei possibili inconvenienti per lo scrittore di romanzi-verità è quello di sviluppare, nel corso delle ricerche, una immedesimazione con il colpevole che ne fornisca un ritratto sentimentale e idealizzato. Qui non accade. Non c’è un solo passo in cui Meyer Levin tenti di giustificare questi ‘poveri ragazzi ricchi’. Anzi, l’autore ricorre alla dettagliata testimonianza psicologica e alla cronaca – che gli è familiare grazie alla sua esperienza di giornalista che si è occupato del caso – per offrire un’immagine rigorosa della vita interiore degli assassini“.

La parola chiave della intensa e profonda premessa scritta da Marcia Clark con cui si apre lo splendido e terribile Compulsion di Meyer Levin (in Italia pubblicato da Adelphi nella traduzione di Gianni Pannofino) è verità, intesa nella duplice accezione di specchiata aderenza ai fatti accaduti (l’omicidio, le indagini, la scoperta, quasi fortuita, degli autori, l’incriminazione e il processo che ne è seguito, riportato per larghi tratti nella seconda parte dell’opera) e di sofferta ricerca di un movente reale, solido, comprensibile, di una ragione che potesse dare conto di quel gesto terribile, che sembrava essere stato compiuto, non solo senza un perché degno di questo nome (ammesso che l’omicidio a sangue freddo di un ragazzino possa davvero essere, in qualche modo, razionalizzato), ma semplicemente come corollario di oziose teorie masticate con l’ingenuità propria dei fanciulli e travisate con tragica banalità. Levin (protagonista al pari della coppia omicida perché fu lui, in quel 1924 giornalista alle prime armi in forza al Globe, a occuparsi della vicenda) è perfetto nella ricostruzione dei fatti, dell’ambiente in cui si sono svolti, nei ritratti e nell’approfondimento psicologico di tutte le persone coinvolte (a cominciare dai compagni di studi di Leopold e Loeb, i cui nomi qui cambiano in Judd Steiner e Artie Strauss, così come quella della povera vittima muta in Paulie Kessler, mentre l’autore stesso prende il nome di Sid Silver); ciò a cui riesce a dare forma nelle quasi 600 pagine (che si leggono d’un fiato) di quest’opera è un mondo riflesso nel giardino degli orrori di un microcosmo che, nel percepirsi come intoccabile e protetto da se stesso (dalla propria cultura, dalla disponibilità di mezzi, da un’etica del lavoro e delle relazioni sociali e familiari metafisicamente ‘pura’ e in quanto tale garanzia di premio per se stessa), si scopre invece completamente impreparato dinanzi allo spalancarsi improvviso dell’abisso dinanzi alla porta di casa. E in questo piccolo mondo dilaniato dall’interno da un cancro innominabile e spaventosamente concreto (la perversione omicida di ragazzi nei confronti dei quali le famiglie non solo non avevano mai nutrito sospetti ma che amavano e ammiravano incondizionatamente per la non comune intelligenza, la cortesia dei modi, il roseo futuro che li attendeva e che così brillantemente stavano costruendosi nelle aule di studio) Levin cammina accompagnato da un’umanissima angoscia. Ed è alla sua luce, alla luce del suo smarrimento, della sua pietà che lo soccorre solo a tratti, della sua rabbia impotente che non smette di assalirlo, che egli si sforza di raccontare con la massima oggettività possibile, riuscendoci tanto meglio quanto più le sue incertezze risaltano nel pulsare emotivo della prosa. Con occhi colmi di lacrime Levin descrive i due amici in ogni loro aspetto, ne sottolinea il legame esclusivo (segnato da forti pulsioni omosessuali), gli eccessi, si sofferma sulle debolezze, si sforza di interpretarne parole e azioni, senza tuttavia mai spingersi fino alle colonne d’Ercole di un giudizio.

In questo senso Compulsion è il racconto di una tragedia, di una catastrofe che non ha lasciato sul terreno che vittime, ed è probabilmente questo, al di là dello splendore splendore formale e dell’impeccabilità tecnica del libro, il suo valore più grande: essere “soltanto” la parola di uomo tra gli uomini, e come parola un tentativo di traduzione, in una lingua che possa finalmente essere comprensibile a tutti, del loro (e nostro) errare in una tenebra troppo spesso implacabilmente spietata.

Eccovi l’incipit, buona lettura.

Nulla ha mai fine. Credevo che il mio ruolo nella storia di Paulie Kessler si fosse esaurito tanto tempo fa, e invece ora sto per andare a parlare con Judd Steiner, che è in prigione da trent’anni.

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